Gli amici lo chiamavano El Gordo, il Grassone, ma l’ultima volta che l’avevo incontrato, più o meno un anno fa, a Saint-Malo, Osvaldo aveva già cominciato a navigare nei suoi vestiti come una barchetta in mezzo al mare. Stanco, smagrito, con gli occhi cerchiati di rosso e un enorme sigaro sempre tra le labbra, sembrava uno dei suoi sgangherati personaggi mazzolati dalla vita, uno di quegli antieroi teneri e assurdi nei quali la tragedia cova senza darlo a intendere, con ritrosia e con pudore.

Non ci vedevamo da parecchi anni, ma lui fu amabile, affettuoso e timido come sempre. La sera, nei caffè di Saint-Malo, Osvaldo non si sottraeva a nessun argomento di conversazione, era interessato a tutto, di tutto sapeva qualcosa che valeva la pena di essere raccontato. Eppure, se interveniva in qualche discorso, lo faceva badando a non essere inopportuno, a non attirare troppo l’attenzione. Era un uomo timido, uno dei pochi scrittori non affetti da narcisismo.

In morte di Julio Cortázar, Soriano ne aveva scritto un ritratto commosso. E, come spesso capita, aveva usato parole che erano quasi un autoritratto: «Non parlava quasi mai di se stesso, a meno che ciò non accadesse in funzione degli altri. Era timido e sembrava distante. Amava e si lasciava amare senza fare pubblicità, con quel pudore così orgoglioso che lo sottraeva alla venerazione e lo faceva sorprendere della sua stessa fama». Lì a Saint-Malo, un piccolo episodio mi riportò violentemente alla memoria quelle parole. Osvaldo arrossì fino alla punta dei capelli quando Paco Ignacio Taibo, che non l’aveva mai incontrato prima, gli disse di considerarlo uno dei suoi maestri. «Se negli anni duri dopo il Sessantotto», gli confessò Taibo, «non ci fossero stati i tuoi libri, noi tutti avremmo perso ogni speranza».

Eppure, per quanto imbarazzato per l’elogio, Osvaldo sorrise. Doveva avergli fatto piacere quell’accenno alla speranza. È vero: era spesso triste perché non aveva mai perso la capacità di sorprendersi o di indignarsi, ma in fondo era un ottimista, un malinconico che sapeva trovare nell’ironia, nella sua capacità di scovare il ridicolo e il grottesco nelle situazioni più tragiche, il modo di scampare dalla depressione.

Con questa stessa speranza, Osvaldo affrontò la diagnosi della sua malattia, che gli fu comunicata una sera del luglio scorso. Furono in pochissimi a conoscerla, perché la sua naturale discrezione ebbe ancora una volta la meglio. Adesso sappiamo che mentre si sottoponeva pazientemente alla chemioterapia, trascorreva le notti giocando col suo computer, aggrappato a Internet, inviando e-mail come messaggi in bottiglia. Possiamo cercare di immaginare ciò che sentiva, chiuso in casa, ormai calvo e provato, se leggiamo l’ultimo capitolo del suo ultimo libro, Pirati, fantasmi e dinosauri: «Sono stanco», fa dire Soriano al protagonista, il Mister Peregrino Fernandez, «ho più anni di quanti ne abbia confessato e l’infermiera si avvicina per portarmi a cenare. Qui a Parigi andiamo a letto molto presto e adesso che si avvicina l’inverno l’unica cosa che posso fare è guardare vecchi film, leggere vecchi libri e evocare vecchie partite. «Non dovete provare pietà per me: la memoria, se è vera e violenta, è un ‘materiale eccellente’».

Ma di sola memoria Osvaldo non avrebbe saputo vivere. Era un uomo di pochi princìpi, però inflessibili: la dignità, la solidarietà, la decencia. Princìpi che pochi hanno ricordato alla sua morte, ma che erano parte fondamentale della sua vita e della sua letteratura. Lo spingevano passioni semplici, popolari, una curiosità insaziabile per le persone e le cose; per questo milioni di lettori in tutto il mondo si identificavano nelle sue storie, nei suoi personaggi che si aggiravano per l’Argentina come se fossero stranieri attoniti di fronte a ciò che vedevano. Da Osvaldo, quei personaggi prendevano in prestito l’atteggiamento sornione, il dolce mezzo sorriso che non lo lasciava mai, lo sforzo di masticare ogni briciola di vita che gli capitasse a tiro. A lui piaceva moltissimo la scena di All’ultimo respiro di Godard in cui Belmondo fissa il sole accecante e gli spara, con l’insensata speranza di spegnerlo. Quello, diceva Soriano, era un uomo che avrebbe potuto divorare tutta l’aria del mondo con una sola boccata. Anche lui era fatto così. Succhiava fino in fondo la polpa della vita e buttava via la scorza. Anche se la vita, spesso, spessissimo, gli faceva male.

Bruno Arpaia