Ci vuole tanto coraggio, ho pensato, a riattraversare dentro di sé, come fa lo scrittore e giornalista Generoso Picone, in Paesaggio con rovine, questo pezzo della nostra Storia, la sciagura del terremoto del 23 novembre 1980.

E anche una passione fa capolino, ma poi esplode in certi momenti condita da una rabbia solenne che l’autore riesce a modulare con parole misurate, e arrivano però dritte al cuore di chi legge. C’è un dolore profondo per questa terra genitrice, che ognuno ha tenuto dentro di sé, immaginando che fosse un inesprimibile, inenarrabile, immodificabile destino.

Invece, nel libro scopriamo che il dolore per le vittime e le rovine del terremoto dell’Irpinia può essere narrato, interrogato, soprattutto, quando si ripete, quando si rinnova come sta accadendo con la pandemia da Covid.

«Bisognerebbe scavare», scrive Picone, «introdursi negli interstizi delle immagini, porre interrogativi, aspettare risposte, pretendere di sapere. Come fa il caporal maggiore Tommaso Chessa uno dei militari alla guida dei camion che caricano le bare delle vittime della pandemia… Delle otto persone che accompagna nell’ultimo viaggio, soltanto di una riesce a conoscere l’identità: “Pagherei per conoscere tutti i parenti delle otto persone e poter dire loro che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore. Vorrei conoscere le persone care dei miei compagni di viaggio, ma se così non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!»

Anche Generoso Picone ci ha messo l’anima. Quando usa parole incisive che raggiungono il lettore e non lo lasciano “quieto”; parole dolenti che al tempo stesso rivelano come sappia anche prendersi cura di chi legge. Sì, perché lasciano trapelare in un linguaggio accurato, scarno, ma poeticicissimo, tutto l’amore per la sua terra, la nostra terra. Sì, con tutta la dolcezza e l’ira per parlare dei nostri morti, le vittime senza colpevoli.

Ognuno ha la sua Irpinia, io la mia l’ho incontrata, forse mai l’avrei cercata, se non fossi stata portata lì dal lavoro. Erano le cattedre da “occupare”, lasciare il comfort della mia casa in città e andare in provincia, una provincia di cui non sapevo nulla, se non del freddo, della neve. Sì, anche del pane di Montecalvo che si era passata la voce fosse una bontà.

E l’ho incontrata ancora quando la politica mi ha portato a percorrerne le strade al tempo del referendum sul divorzio e quando la lettura di Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani fece maturare in me la convinzione che bisognava cambiare la scuola o per lo meno il modo di guardare ad essa. Credo che promossi tutti gli alunni in quegli anni con il senso di colpa che se non potevo cambiare la loro vita, potevo testimoniare di una mia “vicinanza” a coloro che restavano indietro.

Ci sono modi diversi per rispondere a un dolore. Uno, quello più comune, operando una separatezza, ci attraversa, fuggiamo via, dimentichiamo, ce ne stiamo lontani. È umano ma non ci salva. Primo, perché pensiamo si sia dissolto, invece non si dissolve, sta lì, e ce lo vedremo comparire con altri volti, altre storie, non sapremo liberarcene.

Poi, c’è un altro modo: riattraversandolo, non sottraendoci, ci fa imprecare, disperare, quello sì ci può pacificare. Ma c’è bisogno di un tempo, lungo, il tempo che serve a noi umani per superarlo, per guardarlo infine… da lontano. E noi non abbiamo fatto questo, ci siamo illusi di poter dimenticare, che il terremoto fosse una ferita che non ci apparteneva, in fondo non aveva stravolto le nostre vite per noi rimasti nella città, ne aveva solo cambiato il volto e ci siamo ritrovati, orfani, stranieri, non ne abbiamo più riconosciuto le fattezze. Abituati, a non trovare più le tracce della Storia, della nostra gioventù, abituati a sentirci impotenti di fronte a chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto, ci siamo abituati.

Io per metà caudina, per metà irpina

Ho sempre pensato che somigliamo nel bene e nel male ai nostri genitori, certo. Abbiamo mangiato quel pane, bevuto quell’acqua, respirato quell’aria, ci siamo nutriti “inconsapevolmente” di tradizioni e modi di dire, e anche i miei capelli rossi da bambina ereditati dalle mie zie, da mio nonno Pellegrino che ho appena appena conosciuto, mi raccontano di un’origine, un’appartenenza, chissà, per metà caudina e metà irpina. E i modi di sentire, quella cifra tenace, “capa tosta”, appartengono a una terra che è anche la mia. L’avevo dimenticato, ovvero lo ignoravo, non ne ero stata nemmeno curiosa.

Ma il libro Paesaggio con rovine alza il velo, mi mette davanti una verità, e riemerge dalle profondità una verità che non posso più ignorare: «l’Irpinia povera e marginale di allora oggi è un luogo spopolato, abbandonato, irrilevante

È come se un grande coperchio fosse stato sollevato e ora volano nell’aria, scialli neri, mantelli a ruota, cappellacci a larghe falde, la terra, quella da cui tutto ha avuto origine. E quando vedo il recente documentario sul terremoto dell’80 e ascolto il pastore la cui casa si è spezzata in due e lui preferisce dormire all’addiaccio con le sue pecore, perché non è sicuro che a lui tocchi un riparo, un ristoro, e trova più calore rimanendo accanto alla sua casa, alle sue memorie, le lacrime mi scorrono senza che me ne renda conto. Eccola l’anima, eccola la dignità, farcela da soli perché abituati da secoli a un destino di solitudine e di abbandono, alla durezza, ai diritti negati e ignorati. C’è un candore primigenio, c’è un Cristo che porta la sua croce.

Illustrazione di Gaia Guarino

Ma era questo da sovvertire, far sentire piuttosto la presenza di uno stato che non rapina quell’acqua, quell’aria pura, quelle distese di campi, quei cieli azzurri, e si prende invece cura, ha a cuore la terra, i suoi figli e i suoi destini. Ma ancora una volta quella terra che ci ha originato e di cui tanti si son dimenticati, per giunta han sfruttato da sempre, e ancora una volta continuano a farlo, è estraniata da sé stessa non sa più chi era, chi è stata e cosa vorrà essere.

«Ma non c’è solo il dolore, ma tutto ciò che si poteva fare e invece non si è fatto» ci ricorda l’autore che non vuole dimenticare, vuole immergersi, capire, ritessere le trame, guardarci dentro.

Portiamo cucito addosso ciò che non è stato, ciò che non siamo diventati, quell’occasione perduta, quel riscatto, mai avvenuto, rimaniamo “i meridionali che ci hanno ricavato le case nuove”, è questo il mantra.

E questo “nuovo” a cui gli Irpini non hanno partecipato, (tranne qualche eccezione) se lo son trovato addosso, progetti calati dall’alto, (anche di illustri archistar) ma non a misura di chi in quelle case doveva abitarci. Certo, quanto son costate le case rifatte e quanti poi son andati via per poter raggiungere i propri cari sparsi per il mondo. Non riconoscevano più lo spazio dove avevano vissuto fino ad allora, perché il territorio, ferito, era stato ancora una volta “sfruttato e non ricucito” “ed era già di suo povero e marginale”.

I costi lievitati? Se vediamo la provenienza delle grandi imprese costruttrici, non sono del Sud ma il Sud non può scrollarsi di dosso… la maldicenza.

È la nostra storia, ci racconta ciò che non vogliamo sentirci raccontare, una realtà che poteva essere altro, aveva potenzialità, bellezza, paesaggio, acqua, vento, intelligenze, invece nulla.

Illustrazione di Gaia Guarino

Nonostante tutto ciò, alla fine di questo lungo viaggio, l’autore, placata la rabbia e appaciato il cuore, ci regala una speranza e il suo amore per questa terra.

E lo ringrazio per questo libro, “necessario”, un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Dopo la lettura non siamo più quelli di prima. Questo è accaduto a me con Paesaggio con rovine. Ora, sento davvero “mia” la Storia della cara terra d’Irpinia. Grazie, Generoso Picone.

Lia Sellitto

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