Quando mi sono messa a ripensare al romanzo di Camus, L’étranger, che il titolo del romanzo di Durastanti, La straniera, riflette con la forza minima di quella a al posto della o, ho visualizzato subito la parola madre. La madre di Meursault che muore all’inizio del romanzo di Camus e che il figlio non riesce a piangere. Mi è rimasto in mente questo blocco del protagonista che poi, a ben guardare, non è solo un vuoto emotivo, in una sensibilità generalmente rarefatta e deprivata fino alla crudeltà. E poi ricordo la fine del romanzo, quando l’esecuzione è imminente e la madre ritorna in tutta quella potenza soffocata. Questo credo almeno di ricordare. Poi, dopo, arrivano il romanzo ritrovato da qualche parte nella libreria, lo scrittore a Stoccolma che riceve il Nobel, l’universalità dell’opera, le ragioni politiche e ideologiche, la guerra d’indipendenza dell’Algeria, il terrorismo del FLN, l’estraneità come condizione esistenziale di rivolta contro la giustizia che si macchia di crimini, quella a cui Camus preferisce provocatoriamente la semplicità di una madre analfabeta. La sovrastruttura culturale abbondantissima che un po’ ingabbia i classici. Sotto, dopo, c’è di nuovo un piccolo appartamento in un quartiere povero e chiassoso di Algeri, Camus bambino, orfano di padre. E la madre Cathèrine, praticamente sorda, praticamente muta. “Cette mère étrange”.
Anche per Durastanti “la straniera” del titolo, è sua madre, anche lei sorda come quella di Camus. E poi ovviamente la scrittrice stessa. La condizione di straniera non ha a che vedere con le storie familiari e personali di migrazioni che pure si raccontano in questo romanzo incredibilmente contemporaneo. Non principalmente. Certo i nonni della Durastanti sono emigrati negli Stati Uniti, dove la scrittrice è nata. Poi assieme alla madre, lei e il fratello si sono trasferiti in Basilicata, ritornando in America per le lunghe vacanze estive. Dopo, il trasferimento a Londra dove la scrittrice vive attualmente. Ma la condizione di straniera prima di essere legata alla sua condizione di expat, di ragazza dalla doppia cittadinanza è legata alla sordità di entrambi i genitori. Soprattutto alla sordità della madre, amplificata dalla minaccia rappresentata dalla personalità psicotica di un padre inafferrabile ed inaffidabile, con tendenze suicide.

Camus dedicava il romanzo incompiuto Le premier homme a sua madre che, analfabeta, non avrebbe mai potuto leggerlo. “Por el analfabeto a quien escribo” erano i versi con cui Elsa Morante apriva La Storia. La dedica di Camus affonda come una specie di barriera tra lui e la madre che in qualche modo lo isola in una sua fortezza, ferendolo come l’indifferenza. Perché prima di essere sorda e quasi muta, Catherine Camus era anche una donna di pochissime parole, umile, ubbidiente, rispettosa, riservata. E così lo spazio tra lei e suo figlio è uno spazio ameno, disadorno, sottile. Tanto sottile da scomparire sotto il peso di tutto il resto.

Lo spazio tra Durastanti e sua madre invece si allarga, si allarga, di cerchio in cerchio, strato su strato. È uno spazio pieno, pieno di gesti anche buffi, scoordinati, perché la madre una hippy incosciente e ribelle, non ha voluto mai esprimersi con il linguaggio dei segni, per non attirare l’attenzione, e la figlia al posto di quel linguaggio ne ha dovuto confezionare uno suo, alternativo. Uno spazio fatto di forzature di una figlia che vuole provocare la comunicazione, come quando da bambina la assaliva saltandole alle spalle, sapendo che l’avrebbe fatta sussultare. Durastanti vuole comunque “addensarsi” intorno a lei, anche se le sembra impossibile. Se la madre si camuffa e camuffa la sua invalidità, lei vuole essere vista, non ha vergogna o non ha più vergogna. Mentre Camus rispetta quello spazio silenzioso, e non cerca mai di violarlo fino a ingoiarne tutta la solitudine, Durastanti non smette di interrogarlo, di profanarlo con quella testardaggine che l’ha portata fuori del disagio e della vergogna. Quella che le ha permesso di emanciparsi, mentre gli altri annaspavano, si perdevano, si rompevano, si bucavano, morivano.

Se il silenzio della madre per Camus è una barriera invalicabile, da far indietreggiare di fronte alla personalità intransigente del figlio, per Durastanti quel silenzio è una sostanza lichenica, mista. L’edera lontana di Grazia Deledda, così maledettamente benefica. Il romanzo La straniera è scritto proprio lì, in una striscia di confine tra la scrittrice e sua madre. Scrivere in questa zona di contiguità vuole dire entrare ed uscire continuamente dal passato, uscire da un mondo che è stato tuo fino a pochi attimi fa, ed entrare in un altro mondo quello che ti sei costruita in cui però tra i mobili che hai scelto tu ce ne sono tanti ereditati da lei in traslochi improbabili. Vuol dire sentire costantemente l’eco buono o cattivo di tua madre.

La Durastanti è straniera perché figlia e nipote di emigrati. I nonni materni sono emigrati a Brooklyn, che era in quegli anni ’40, ‘50 una miniatura dell’Italia, con le canzoni melodiche, le riunioni di famiglia della domenica, o piuttosto un pezzo di un America che forse è solo più piccola di quanto siamo abituati a pensare. Straniera perché figlia di una italoamericana trasferitasi in Basilicata, una Basilicata arcaica con le pietre e le calanche ma arrugginita e futurista come una America in miniatura. Straniera perché expat e poi apolide dopo il Brexit, in una Londra di cui Durastanti ci restituisce tutta l’anaffettività culturale che oramai ci ha colonizzato. Straniera perché povera ma eccentrica. Straniera perché infiltrata in un ambiente di lavoro snob dove l’unica vera cosmopolita è proprio lei. E poi ancora la straniera di quelle parole “hey stranger”, sussurrate dall’attore del film di turno (la Durastanti cita tantissimi film), ennesima copia di quel Marlon Brando con cui identifica in qualche modo il padre fin dalle prime pagine del romanzo, e che sono una specie di colonna sonora di una storia d’amore di simbiosi e predestinazione che parte però proprio da un silenzio, un non detto cristallizzato, una frattura . Ognuna di queste parole è un tentativo di mettere radici ma porta con sé la consapevolezza che quel terreno che si chiama di volta in volta famiglia, città, amante, linguaggio ha l’incanto di una palude o di un terreno mobile che frana sotto i piedi e va sempre riqualificato.

Ma prima di tutto straniera significa disabile. In fondo La straniera è anche un romanzo sulla disabilità. In una frase meravigliosa che dovrebbe diventare uno slogan, Durastanti scrive che la disabilità non è un’eccezione ma “una destinazione”, quella verso cui avanziamo tutti noi, esseri a metà. Aggiungo che la disabilità, lo straniamento è anche il luogo da cui proveniamo. Un’origine. Quello spazio che ci portiamo addosso, un sottofondo, una specie di rimbombo. Lo spazio in cui ci muoviamo quotidianamente mentre avanziamo verso un presente che consumandosi sempre più velocemente è oramai già scavalcato.

La straniera è dunque un romanzo sull’origine, sulla madre, per la madre in un modo assolutamente inedito. Perché quello che fa Durastanti non è seppellire la madre, ignorarla, ricongiungersi, riconciliarsi o continuare a litigarci. O non solo. No, la madre entra in questo romanzo, nelle pagine e nelle sue pieghe, si appoggia schiena contro schiena sulla sintassi, sulle parole, in un tentativo poetico di riscrittura e di traduzione. In tutto c’è la madre. La Basilicata è la terra che Durastanti ragazzina attraversa in passeggiate cieche con la madre, senza inizio né fine, senza meta, solo sfogo fino a che i polmoni e i polpacci non reggono più. Ancora un eco materno è l’apocalisse, che torna e ritorna nelle pagine, in quei pezzi di città un po’ tetri, cimiteri sotto cieli post-nucleari, in cui la realtà spesso si altera nelle immagini di tutti quei film americani con il loro messaggio di malessere e fine del mondo imminente, o figlie di una cultura punk da sobborgo londinese, di cui si è nutrita la generazione della Durastanti. Questa deformazione è anch’essa legata alla fragilità di una madre sorda che si sente sempre esposta ad un attacco improvviso, anche un impercettibile spostamento d’aria alle spalle, centuplicata dall’angoscia assordante di un impatto mai avvenuto, il salto nel vuoto che il padre non compie.

Il romanzo è il negativo della madre. Se il territorio della madre si svuota, si riduce sempre di più perdendo pezzi di senso, Durastanti scrive, aggiunge parole a parole, suoni a suoni. Se la madre crede nelle stelle e nella predestinazione, e sente la sua migrazione come l’atto insignificante di  una transumanza arcaica che si ripete ottusamente, la Durastanti si scrive il suo destino nelle pagine di questo romanzo che ricalcano le rubriche di un oroscopo un po’ strampalato. Ma di nuovo per arrivare, alla fine del romanzo, sui contorni di quelle sagome, dove i chiari e scuri si confondono, e la madre appare finalmente come una persona libera come sua figlia.

Ma soprattutto alla madre è dedicato questo tentativo struggente di riscrittura della disabilità che è La straniera. L’arditezza della Durastanti di metterci sotto gli occhi una traduzione ellittica. Di smantellare i pregiudizi sulla disabilità, o sulla malattia, che poi sono pregiudizi sull’alterità, portandoci per un altro cammino, assieme a lei in quella stanza anecoica, nel silenzio assoluto, per toglierci finalmente i nostri sensi, ed immergerci nel corpo polifonico di una persona che non sente. Durastanti fa entrare nel linguaggio e nella traduzione quella “circostanza”, la “zona di infra linguaggio o ultralinguaggio” (teorizzata da Blanchot), che è appartata, ai margini del linguaggio, e cioè la diversità della madre in tutte le sue manifestazioni. Quello strato di pelle e di suoni tra noi e l’altro, che solo così (o almeno così come fa questa scrittrice) possono essere davvero significativi, capaci di comunicarci davvero qualcosa.

Dov’è la Durastanti, lei? Dov’è la straniera? Forse in quel perimetro che percorre attorno ai sentimenti, ai luoghi, ai ricordi, alle appartenenze e agli echi. In quel perimetro magari stretto, magari corto (che non coincide ovviamente con i viaggi vicino o lontano, le migrazioni familiari o personali), magari buio magari splendente, ci siamo noi, il nostro strato tutto personale. E lì probabilmente c’è quella forza, “la force du déplacement”, di cui parla Roland Barthes, quella che è la vera forza della straniera. La forza di spostarsi in questo perimetro interiore.

In questo suo spazio, Durastanti sembra muoversi soppesando i pezzi mancanti, che la rendono straniera perché in continua trasformazione, quelli che sono stati divorati da una creatura infernale in un brutto incubo, quelli persi in una storia d’amore simbiotica vissuta non verso la pienezza ma verso la fine (contempliamo la fine), non per ritrovarli ma solo per sopportarne l’irreversibilità. Ma il suo perimetro è fatto anche della scrittura e soprattutto del margine d’errore nella scrittura, che è  lo strumento che le permette di trasformare quella sostanza opaca, sfasciata, e triste di cui si compone la sua mitologia familiare. Di ripararsi e di evocarla. Questo perimetro lo chiamerei “neverland”, parola mal tradotta, come ci racconta Durastanti, per “l’isola che non c’è”, e che lei preferisce tradurre con un improbabile e bellissimo “maiterra”. A simboleggiare non la rescissione di qualsiasi legame con la terra, con la famiglia, ma solo la storia della grazia di una traduzione imperfetta.

Silvia Acierno