Giuseppe Pontiggia è un interlocutore irrinunciabile della cultura italiana del secondo Novecento, sempre a stretto contatto con scrittori, anche esordienti, ed editori in nome del sapere e della sua condivisione. Bibliofilo attento e caparbio, egli è soprattutto un pensatore. Sorretto da un sistema di pensiero solido e originale, le sue opere sono il risultato di un continuo discendere le vie digradanti della verità, nelle quali il singolo è invitato a fermarsi e a pensarsi, e di un paziente lavoro di cesello sulla parola, che si tramuta per noi in chiarezza espositiva accessibile a tutti. Un autore che investe sé stesso, sempre con un sorriso, nell’arte dell’invenire, nel senso etimologico di inventare e quindi di trovare, e che prende per mano il proprio lettore e lo rende partecipe delle proprie riflessioni riflesse e anche di esperienze molto personali come occasione di dialogo a distanza.

Lo conferma Nati due volte, romanzo pubblicato nel 2000 e premiato l’anno dopo con il Campiello, nel quale, dietro il protagonista si scorge in filigrana Pontiggia padre di un figlio disabile dalla nascita. Tuttavia, più che un libro autobiografico, queste pagine, meditate per trent’anni, nascono, a guardare le abitudini del mondo di fuori, da un profondo bisogno di cambiare prospettiva nei confronti della disabilità e, al contempo, della normalità, anche nell’uso delle parole. È un libro che racconta la convivenza quotidiana di una famiglia con le varie fasi dell’handicap del proprio figlio e, al contempo, cattura il mondo dei genitori smascherandone le finzioni della società in cui vivono e di cui, a loro volta, sono figli condizionati. Perché per Pontiggia la disabilità non riguarda solo il disabile, che la vive, certo, nella sua forma più vistosa e degradante, ma noi tutti. Ne consegue quella nostra disabilità nei confronti della disabilità, ossia l’incapacità prima a capirla, poi ad accettarla e infine a viverla, presi come siamo dal miraggio di una normalità edonistica vissuta come meta. Pontiggia dedicando questo libro ‘’ai disabili che lottano non per diventare normali ma sé stessi’’ in fondo lo scrive anche a chi sta loro accanto.

Su questa temi, in cui grovigli di sentimenti si incrociano, dalla paura alla rabbia, dai sensi di colpa a quelli di impotenza, passando da una lotta serrata con le parole (degli altri), si innesta la storia di un padre, un trentenne insegnante di lettere, e di un figlio che la nascita ha reso ‘diverso’ e che la vita lo vede camminare oscillando lungo i muri. Pontiggia, sin dalle prime pagine, riportando le parole di un pediatra di fronte a genitori segnati da uno strappo così inatteso, chiarisce il senso del titolo e prospetta un nuovo senso della vita all’interno di una dimensione interiore spesso inascoltata che il romanzo ha il pregio di indagare:

«Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà un’esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati. Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita».

A nascere due volte, dopo l’accettazione della disabilità, sono sia i figli che i genitori: i primi hanno bisogno soprattutto che i secondi non neghino le differenze ma combattano per modificare l’immagine della norma che hanno nella loro testa. E quando si legge che l’esperienza ci aiuta a capire l’handicap, omettiamo la parte più importante e cioè che l’handicap ci aiuta a capire noi stessi perché l’attenzione alla meta parziale, i piccoli sforzi, i successi quotidiani, le parole che usiamo, ci inducono a non fissare quella finale e così, almeno in molti casi, a raggiungerla.

Con questa nuova consapevolezza all’interno della famiglia del libro, la vita dunque procede, anche con diversi inciampi, ma la riflessione di Pontiggia non si arresta e setaccia il rapporto dei genitori con altri genitori, con gli insegnanti, con la burocrazia, con il volontariato, con la religione, con l’assillo dell’encefalogramma e, soprattutto, con la classe medica nei confronti della quale sia il padre di Nati due volte sia l’autore stesso hanno un rapporto di gratitudine ma anche di repulsione. E sul banco degli imputati, coerenza di Pontiggia, c’è sempre l’uso delle parole. I dialoghi con i medici sono in questo senso molto eloquenti e meritano attenzione.

Dal canto loro i disabili, abituati a convivere con la minorazione e a sopportarla, non ne hanno l’immagine insopportabile di chi è sano. Tuttavia hanno molto da insegnare ai propri genitori che così posso nascere per la seconda volta, con nuove consapevolezze: guardare con fiducia gli altri sapendo che è il primo modo di suscitarla; la convinzione che l’uomo che accoglie può essere altrove quello che respinge; l’inciviltà dello sguardo degli altri che si impadronisce con gli occhi della disabilità senza volerla aiutare; la preoccupazione per il proprio genitore che fa dire: ‘’Se ti vergogni, puoi camminare a distanza. Non preoccuparti per me’’;  l’invito a cambiare comportamento o postura funzionale al dogma degli altri a cambiarci per come ci vogliono loro. E poi la convivenza con il figlio vissuta ogni giorno, con lo sguardo e con le parole, come se fosse una persona normale. Solo così il padre di questo romanzo, e con lui tanti altri padri, potranno affermare:

«L’ elettroencefalogramma ha smesso di farmi paura, insieme con i test di intelligenza (perché non i test di stupidità come epidemia planetaria?). Penso che dovremmo misurarla meno, troppi rischi per ciascuno. Proporrei più delicatezza con l’handicap, più riguardo. Ci ricambierà».

Claudio Musso

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