Un uomo e una donna, anzi: un omone e una donnona, fuori misura e quindi fuori norma, Giuan e Olona, amici, complici, amanti, anche se non sempre in questo ordine, si recano ogni notte in bicicletta, spartendosi il liquido spessore dell’aria, verso il centro di Milano, per compiere la loro impresa randagia in una sorta di ammutinamento generale.

Armati di pennelli, di una bottiglia d’acqua ragia, di uno straccio e di gessetti colorati e di un fervore quasi missionario, il loro compito è trovare scritte di protesta o di rivalsa sui muri nei confronti della società e poi trasformarle in messaggi positivi. Così la frase «La dittatura alle teste di cazzo» si trasforma in, dopo un accurato lavoro di restauro e con sempre l’occhio guardingo verso qualche passante, «Solo la mia ditta cura le teste di cazzo. Firmato: Gesù».

In una città agra, non così diversa da quella di Bianciardi, questa nuova epigrafia diventa così l’occasione di uscire dal rifugio coatto nel privato che ci protegge dal fuori per dire la propria, per fare leggere la propria voce quasi spesso relegata al mugugno. Nella speranza che quelle scritte, le seconde, qualcuno le vedrà e magari si fermerà a pensare coagulando un faticoso gomitolo di dubbi sul ventre sciagurato della propria città. Che nel frattempo è diventata:

«una città dove nulla manca e nulla vince, dov’è condanna al debole, maleficio a chi ama, pazzia a chi cerca saggezza, dimenticanza e miseria su chi è caduto, tempeste d’orrori per la creatura precipitata in solitudine, sopruso a chi sa vedere, delirio a chi saprebbe ascoltare».

Milano diventa l’epitome di una città sproporzionata che divora sé stessa, poco includente e di cui è difficile tenere il passo. Viene osservata dai margini da chi, come i protagonisti, non si sentono tagliati per questo mondo ma non perdono ancora la speranza di colorarlo altrimenti.

Di giorno i nostri due corsari conducono una vita piena di ironia e di lavoro. Non possono dirsi: sereni se pensano alle brutture e alle storture del mondo, ma il loro continuo punzecchiarsi l’uno sui difetti dell’altra, per poi concludere con una risata liberatoria, rende il loro perimetro domestico un’enclave di buon umore dove non si ha mai voglia di prendersi troppo sul serio.

Giuan è sempre pieno di citazioni rare e goderecce anche nei momenti più impensabili, facendo suo il motto di Eschilo: «Parla a chi sa» perché sente sempre il bisogno di arricchire l’aria con parole di cui la società avrebbe bisogno ma tace, anche se è «come dire a un leone di succhiar sedani». Dal canto suo Olona non è proprio brava con le parole ma è la sua compagna di merende e la vestale che tiene acceso il fuoco interiore del marito e, se c’è una cosa che la preoccupa, è se il famoso angelo seduto sulla sua spalla, di cui le parlavano da bambina, non sia nel frattempo diventato troppo pesante da rischiare di farla capottare.

Ma i due devono pure campare e allora ecco la pittura, non quella notturna che corregge l’astio ma quella che riproduce immagini, da ultima spiaggia (insomma, ci si adegua ai tempi) che possano circolare per il mondo. Infatti, mentre Olona è indaffarata in cucina con le sue pietanze e i suoi gerani alla finestra che donano colore e vita a una vista su una città spenta, Giuan, con mestiere e asprezza, crea da una cartolina delle copie, grandi come un tovagliolo, dell’Ultima Cena di Leonardo per un mercante con cui fa affari e che gli dà di che vivere.

Giuan è in fondo un gigante buono. Perché dunque asprezza e un malcelato fastidio nella sua arte copiativa? La risposta sta nei soggetti: Giuda gli riesce quasi subito mentre ha più difficoltà con l’apostolo Filippo con quelle dita femminee, con quel collo delicato proteso verso Gesù, che ha la mano rovesciata alla cecità del mondo, con quei lunghi capelli cascanti. La mano grassoccia dell’uomo quasi si ritira nel dovere ritrarre quel ‘ragazzo della porta accanto’ perché Filippo non è altro che un lupo travestito da agnello, il prototipo del sovvertimento dei valori di un tempo, il belloccio che, dietro un sorriso beato e rassicurante, studia il modo per prevaricarti e, se già l’ha fatto, si appella al reato di innocenza. È lui il vero Giuda degli Anni Settanta da quando il piatto di minestra non è più un problema e la fantasia è morta.

È singolare come quest’uomo, in fondo questo ultimo dimenticato, di giorno si prodighi a riprodurre immagini nelle quali si saluta il mondo per l’ultima volta con il tradimento dietro l’angolo e di notte cerchi di penetrare in una disperante palude per, rovesciando il senso delle scritte sui muri, addomesticare l’odio e rintracciare e condividere qualche briciola di bene.

Poi Giuan, ad un certo punto, esce di casa, scompare, e si immerge ulteriormente negli abissi della sua città intercettando altri disperati e disperandi che lo trasformano… mentre Olona, che si chiama come il fiume che attraversa Milano, straripa di dubbi che pensa transitori…

Randagio è l’eroe non oggi è tra i libri più noti di Giovanni Arpino, anche se vinse il Campiello nel 1972, ma la recente edizione di Mininum fax, che ha il merito di ricuperare gli scritti di questo scrittore dimenticato, è un’occasione per accostarsi ad una scrittura che piaceva, per esempio, a Guido Piovene per la sua capacità di mettere a nudo il mondo in una verità imbarazzante e per avere così, come scrisse su La Stampa «un altro segno che il pendolo oscilla di nuovo verso l’emotivo, il fantastico, il surreale, il favoloso, il sentimento cosmico e metastorico, e anche un misticismo di tendenza randagia, fuori di qualsiasi chiesa». Una nuova letteratura insomma che non ama farsi incasellare in correnti letterarie ma che è lei stessa corrente, ma elettrica, capace di scuoterci, ieri come oggi, dal torpore del già detto e deciso.

Sfogliando queste pagine – magnificamente introdotte da Fabio Stassi che mette a fuoco la tonalità dell’autore con un vivace profilo bio-bibliografico e impreziosite da Remo Rapino che illumina le ragioni e le regioni del libro – ci imbattiamo in una prosa verace e istintiva, vivace e dirimente. La quale non ha problemi a farsi rauca e gergale, ma comprensibile, se deve descrivere le vibrazioni di un mondo sotterraneo o le sue confuse ragnatele di pensieri oppure a diventare rigogliosa, quasi lirica, infondendo calore nei lettori più freddolosi.

Claudio Musso

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