Amélie Nothomb ha intitolato il suo ultimo romanzo Psycopompe: ovvero quelle divinità che nella mitologia guidano le anime nell’altrove ma, soprattutto, da quell’altrove ritornano, oltrepassando quel confine altrimenti invalicabile. Emily Dickinson, così shakespeariana nella sua formazione, ha qualcosa di una divinità psicopompa: con la sua poesia ritorna continuamente, sente il richiamo delle maree, muore mille volte prima di morire davvero e continuare a vivere nei suoi versi. Allaccia la vita alla morte, Finite infinity.

Verso i trent’anni si chiuse nella casa paterna, the Homestead, nella stanza al piano rialzato. So che “chiudersi” è una esagerazione ma la biografia di Dickinson è piena di menzogne e sortilegi. Quella stanza è castello, roccia, ponte, circonferenza. È il cassetto di legno in cui Lavinia trovò dopo la morte della sorella quelle seicento poesie che, un’altra donna, Mabel Todd, -in questa storia di donne-, batté vigorosamente a macchina e riuscì a far pubblicare. Quella stanza è soprattutto la libertà di essere poeta.

La stanza dà sulla serra e sul giardino e sulle voci che provengono dal salotto austero del piano di sotto, sui gemiti degli adulteri (How red the Fire rocks below-) o sul mormorio sommesso che accompagna i funerali. Quello del padre soprattutto, Edward Dickinson, avvocato, figura centrale come un magnete silenzioso, presente nei divieti e nelle pretese, soprattutto rispetto alle figlie, sempre fuori a Boston per le sue attività, poco affettuoso eppure protettivo, quello che i figli Lavinia e Austin piangono, mentre Emily dov’è? al piano di sopra nella sua stanza a spargere petali di fiori. La stanza è confine tra realtà e simbolo. Posto dove origliare, spiare; soglia della poesia. Luogo è al tempo stesso “illocazione”. Il posto in cui Emily non sa scegliere, perché forse meglio non scegliere, vivo nel possibile. Qui la poesia ha apposto il sigillo.

Più che luogo del segreto, -che il tempo si è portato via, legato a tutte le lettere che la sorella Lavinia avrebbe bruciato, sepolto nel baule della domestica  Margaret Maher a cui Dickinson consegnò alcuni fascicoli, o troncato come i destinatari delle sue missive-, è il posto delle cose invisibili ed evanescenti (vorrei gustare l’evanescenza lentamente) di cui sono piene le sue poesie che scriveva su qualsiasi foglio, minute, ricette, orli di carte che avvolgevano cioccolatini,  veline trasparenti e ingiallite, che strappava e ricopiava in quei suoi quaderni cuciti da lei stessa in fascicoli. Lei chiude gli occhi e viaggia, e quel suo abito bianco di picchè, quello in cui accolse Higginson, uno dei suoi maestri (maestri forse mediocri, scelti da lei in una specie di parodia del rapporto discepolo-maestro), sotto la sua capigliatura color ruggine, divisa in due bande e raccolta in un tuppo, piccola come uno gnomo, una bambina, una strega, o semplicemente donna, non è mai restato immobile, non è mai stato, almeno ai miei occhi, simbolo di reclusione. Continua a svolazzare tagliato dal vento. Quel vestito che sua sorella Lavinia provava al posto suo, copriva un cuore duro a spezzarsi. La sua vita è un fucile carico.

Camille Paglia in una lettura controcorrente dell’opera della poetessa tinge di rosso quel vestito bianco. Perché Dickinson non è stata solo la poetessa dei fiori e degli uccelli, ma anche una specie di Baudelaire, plebea e antiborghese tanto quanto lui, sadica quanto Sade (di cui sarebbe una specie di versione al femminile); tardo romantica, decadente, con tinte barocche e tardo rinascimentali. Oltre Baudelaire, Poe, Blake fino a sfiorare l’immaginario fantascientifico, atonale e glaciale della modernità. L’allegria è la corazza dell’angoscia – di cui questa si arma guardinga, perché nessuno noti il sangue (166). Quel vestito candido non è monacale anche se Dickinson scelse la reclusione o semplicemente la solitudine (o piuttosto una forma di libertà) e la sua poesia fu pure una liturgia; non è virginale, anche se, come la sorella Lavinia, non si sposò; non è spettrale, anche se non smette di compiere la sua danza macabra attorno al sepolcro, I heard a Fly buzz – when I died.

È il complemento perfetto per chi ha scelto “la condizione scalza”, una forma di freddo, una specie di nulla. Paglia in qualche modo la profana, lei Dickinson che in fondo fu blasfema, resistette con fruizione ed eccitazione, e coltivò la privazione come un vizio supremo. Paglia la sessualizza finalmente, chiamando la sua relazione con la cognata Sue per quello che fu: una storia d’amore durata trentacinque anni. Il barbarico rifiuto del suo sesso, della femmineità in sé e nella natura, un’auto-desessualizzazione (tutte le volte che scrive “quand’ero ragazzo, o si firma Dickinson). Ne esalta tutta quell’aggressiva carica sadomasochista ai limiti del truculento (“amare la ferita”). “Le poesie del titanico e del monumentale sono la scena del suo ripudio di genere”, conclude Paglia.

Sulla spinta di Paglia non vorrei incorniciare Emily Dickinson in un decoro dai colori spenti dell’ardesia sui tetti di Amherst, la cittadina così puritana del New England in cui visse. Lei una specie di creatura fantasmatica nella sua sottoveste bianca con la mantellina blu, un mazzo di fiori selvatici tra le mani, lei che parla alle persone che le fanno visita come in un confessionale, al di là di una parete che la divide dal mondo. Sì, era la Amherst in cui le tradizioni hanno la forza di leggi interiori, in cui le donne passavano molto tempo dentro casa, in cucina tra uova e farina (lei amava preparare il pane), sussurri e silenzi. Una comunità in cui soprattutto i fiori avevano ancora nomi ed erano simboli e le stagioni ti venivano incontro imprecise ma certe con tutto il loro carico di speranza, attesa e azzardi. E portavano con sé una specie di primo linguaggio, più puro e intransigente. “Si parla e si parla, tra donne che compiono lo stesso lavoro, l’ago a mezz’aria, le mani infarinate, e, quando si tace, intorno lievitano fantasmi”, scrive Marisa Bolgheroni nella sua suggestiva biografia, Nei sobborghi di un segreto. Eppure, non vorrei farne un’ennesima caricatura di donna. La storia di Dickinson si svolse alla fine dell’Ottocento, morì a cinquantatré anni, era il 1884. Ma fu la storia di una donna in carne ed ossa, una donna trasgressiva e molto tormentata. Con sogni – desideri – talenti spinti fino all’estremo, agli angoli di una strana prigione. E il tormento e il rifiuto furono soprattutto la misura dell’estasi poetica.

L’invisibile sono le braci di mille anni, la verità sbieca, dimmela obliqua, invisibile fino a diventare essa stessa invisibile. Tutti i biografi si sono chiesti perché si recluse in quella stanza: per la malattia, una lieve epilessia, attacchi d’ansia, agorafobia, per pudore o per autoderminazione, prigione paterna? Chi serrò tanto le finestre del nido? Preferisco lasciarla in quella stanza che scelse, in quella casa che abitò fino all’invisibile, nel salotto buio, nella serra, sui gradini dove accoglieva i suoi maestri con i gigli nelle mani, in quelle corse tra la casa paterna e gli Evergreens, la casa di Austin e Sue. Via d’uscita e via dell’ellissi. Lì non come un fantasma di una storia d’altri tempi ma come presenza.

In realtà le case furono due, gemelle, appena separate da una siepe, in cui i figli Austin, Lavinia ed Emily in qualche modo non riuscirono a staccarsi dalla coppia genitoriale, né ad andare molto lontano. Vorrei fossimo ancora bambini, vorrei fossimo bambini per sempre. Una siepe più in là c’è la dimora degli Evergreens, dove il fratello Austin finalmente si stabilì con la moglie Susan Huntington Gilbert. Tanti hanno visitato quelle stanze che ora sono museo. Anche la fotografa statunitense Annie Leibovitz, colpita, come racconta in Pilgrimage, dai tendaggi pesanti dei salotti e l’asfissiante mancanza di luce. Leibovitz ha fotografato il letto in cui morì Emily e dalla finestra il sentiero che portava agli Evergreens. Poi una campana di vetro con degli uccelli impagliati, moda vittoriana. Perché in qualche modo di tutto il mondo di qui, troppo vivo, Emily scelse di rappresentare il passaggio e lo portò dentro la sua poesia, chiusa eppure cristallina.

Sue è “l’altra sorella”, la prima lettrice delle poesie di Emily, Sue per l’eternità. Sue è l’opposto di Emily, pragmatica, dominatrice, perfetta nel ruolo di padrona di casa, tra ricevimenti, intrighi, e la superficie della vita raccolta per i posteri negli Annali degli Evergreens. Modellò quella casa scelta dal suocero su se stessa, racconta Bulgheroni. Emily Dickinson amò Sue nei suoi versi (Se mi tagliassero le mani, dentro ci troverebbero le tue dita) e nella vita le unì un’intimità profonda e complessa, che va oltre l’indagine sulla omosessualità della poetessa, e i pettegolezzi. Il matrimonio di Austin e Sue fu vissuto anche come un tradimento, ma rafforzò, rendendola ancora più intricata, quella relazione, perché per Emily, il tradimento, quello di Sue (come quello di Kate), si disperde nella poesia. Tutte e due amiamo Sue come a ciascuno è dato di amarla, scrive al fratello. Quando Emily morì, Susan le cucì l’abito, le legò al collo un mazzetto di fiori ognuno con un significato preciso e le dedicò ovviamente una poesia.

Anche quando Austin si invaghì e poi perse la testa per Mabel Todd, la stessa donna di cui si era innamorato il figlio, anche allora, nonostante la tempesta, la furia di Sue, che usò tutte le sue risorse per trattenere il marito, il traffico fra le due case non si interruppe. Anzi si infittì. E a quel perimetro si aggiunse il cottage nel terreno di proprietà della famiglia Dickinson in cui Austin fece istallare l’amante e suo marito.

Prima della reclusione, prima di nascondere tra i tizzoni del caminetto, i cocci dei piattini di porcellana fine rotti nei momenti di estraniamento (o nelle crisi epilettiche), in cui la mente in qualche modo abbandonava il corpo, la Emily di prima, la ragazzina, nell’estate del 1859, correva tra una casa e l’altra . Approfittando delle assenze del padre restava fino a tarda notte nella casa del fratello, partecipando ai ricevimenti con i nuovi amici, tra cui soprattutto, la bellissima Kate Scott Turner, “la ragazza in nero”, giovane vedova, e Samuel Bowles attratto da Sue e da Kate, e “sconcertato” da Emily. Sconcertato è la parola esatta per descrivere quello strano turbamento che Emily provocò in Bowles e poi in Thomas Wentworth Higginson, in quegli uomini che lei scelse come amici, maestri, che a suo modo cercò di sedurre: sconcertati, incuriositi e riluttanti nei confronti di questa “strana creatura”, bizzarra bambina, metà angelo, metà demonio.

Complici la notte, la rugiada, la luna, preludio di quell’alba “invisibile all’uomo” in cui “le fanciulle su un prato remoto festeggiano il loro maggio serafico“. Prigioniera di un cerchio stregato dove si intrecciano affinità elettive brucianti come passioni”, scrive Bulgheroni. Quelle serate erano innaturali – La felicità è innaturale.

Poi dopo un inverno troppo rapido, arriva il 1861, Emily indirizza tre lettere (di cui si conservano le minute) ad un corrispondente non identificato, “Master” (Samuel Bowles, il reverendo Wadsworth o il giudice Lord), a cui Emily-Margherita confessa il suo amore, e qui Bolgheroni in qualche modo colloca la svolta: quella della poesia e della reclusione. Allegoria amorosa o storia d’amore reale?  “Le lettere al Maestro certificano la nascita di un poeta che, pur sapendosi immaginare uomo, si riconosce donna e destinata alla suprema ambiguità del bianco”, scrive l’autrice. Emily si ritira e la poesia prende il sopravvento: trecento poesie furono scritte e trascritte in quel 1861. Entra in contatto con Higginson al quale invia quattro poesie, proponendosi come collaboratrice dell’Atlantic Monthly, e provando, senza esserne convinta davvero, a collocarsi nell’universo letterario del suo tempo.

Proprio a Higginson, scriverà: “non ho mai avuto una madre. Suppongo che una madre sia colei da cui si corre quando qualcosa ci turba”. Dalla grande casa di Homestead manca sempre una figura, quel tassello in cui è davvero rinchiuso il mistero, l’unico fantasma: la madre, Emily Norcross. Madre negata, donna vissuta all’ombra del marito, depressa, poi malata, paralizzata dopo la morte del marito. Paralisi è una specie di condizione in cui si trova invischiata Emily. Grado ultimo di quella solitudine che per tutti Dickinson scelse: scelse di murarsi viva. Sola perché l’altro non ci sarà mai, non ci può essere intimità, l’altro esiste in quanto si sottrae, l’altro è la proporzione del desiderio, che per restare tale, allo stato puro deve sigillarsi nella rinuncia; “I versi sono l’unico sollievo alla paralisi che sento”.

Nadia Fusini nel suo ritratto della poetessa (Nomi) la porta giù, la accompagna in questa caduta che Dickinson scelse violenta e innaturale. Giù nel pozzo, nella perdita, nel regno del no, nell’abisso della miseria e della disarmonia, del silenzio, un deserto di silenzio, mentre la sua poesia si abbrevia e l’ordine delle parole si fa sempre più essenziale, il ripetersi ossessivo delle stesse immagini, le pause come silenzi. Lì dove neanche la morte ci appartiene, e la supplica è senza risposta perché, oltre alla farsa, il suo Dio è indifferente, terribile, avaro, geloso, vendicativo. In quel “didentro”, within nasce la sua poesia, come unica risposta, radicale e sentenziosa. “Un’intensificazione esasperata della dimensione puritana”. Lì quella “macchina di sensibilità” che fu Emily Dickinson vede e sente quello che la scrittura non è capace di restituire: “che la vita non è che una lunga morte”, conclude Fusini. “Senza la sua lotta contro Dio e contro il padre non ci sarebbe stata poesia”, scriveva Paglia.

Di nuovo Dickinson resta sospesa come una strana creatura e caricatura in uno spazio ultraterreno o surreale, troppo dentro di sé, o troppo sadica, secondo l’immagine che preferiamo di lei. Una figura quasi grottesca troppo ascetica o troppo erotica o meglio omoerotica. Intrappolata in un copione sessuale che è un “collage di persone sessuali” in cui è donna ma solo per mimarne la virginea reclusione nella sua dimora borghese o uomo per raggiungere l’estremo opposto dell’esperienza sessuale e affermare la sua potenza fallica (lei è il fucile e il serpente). Un feroce dominatore che recita la parte del passerotto. E la sua poesia così conchiusa e concisa, implosa e zoppicante, una sorte di cella sessuale. O un tempio in cui una feticista e fanatica Dickinson si rinchiude per farsi adorare. In sostanza, chiude Paglia, un genio maschile come lo fu Emily Brontë.

E invece fu un genio tutto femminile (se questo ha un senso) nella misura in cui si pose quella semplice domanda che ho riportato in epigrafe: donna cosa ho a che fare con te? Perché è una domanda, una ricerca e non un’affermazione. Perché il lessico femminile (nel senso usato da Sandra Petrignani) parte da questa domanda, perché fece della sua vita eccentrica uno strano verso mentre la poesia diventava una strana forma di vita, senza barriere, passando da una stanza ad un’altra.  Perché loro (la società patriarcale e quelli come Higginson che anche dopo la morte della poetessa continuava a pensare che le sue poesie fosse “impresentabili”) l’hanno rinchiusa nella prosa come da ragazzina (è sempre la ragazzina, “the little girl”) la rinchiudevano nello stanzino (They shut me up in Prose as when a little girl they put me in the closet).

Ci sono pozzi, perdite, ellissi, diagonali, silenzi, cadaveri, mutilazioni e segreti, c’è tutto quello che hanno sapientemente visto. Ma c’è anche una donna che si occupa della madre invalida nella stanza accanto alla sua, che piange, sospira, vive, scrive in segreto. Una donna che a quarantotto anni amoreggia con Lord, un amico del padre, anche se quell’amore può solo scimmiottare la prima passione per Sue, ne è solo un pallido riflesso. Stanotte vorrei che la mia guancia si consumasse nella tua mano. Il matrimonio non si celebrerà per il destino sempre beffardo, perché Lord muore, o perché non si sarebbe comunque mai celebrato (“è abituata a censurare la felicità”). C’è una donna che riempie spazi di felicità e risentimento. Che incassa morte dopo morte: quella del padre, poi della madre scivolata via come un fiocco di neve, quella del reverendo Charles Wadsworth, piombato nella sua casa dopo vent’anni, un’apparizione, per annunciarle che sta per morire e poi del nipotino il piccolo, amato Gilbert, morto di tifo in quella stanza degli Evergreens in cui, dice Leibovitz, si respira ancora tutta la tristezza di quella morte precoce. Lei incassa, i defunti si chiudono come asterischi tra le stelle, si indebolisce e si avvicina alla propria di morte.

Dentro l’enigma c’è soprattutto una persona assolutamente originale che mette in discussione il passato (anche la madre), la Amherst vittoriana e puritana che crede ciecamente nella vita eterna, l’umanesimo così prosaico e posticcio di Wordsworth e della sua epoca assieme alle sue madri dimenticate. La poesia sorge da “quell’interna differenza” dove stanno i significati, quel punto giù, profondo dove sei faccia a faccia con te stesso, lì dove le cose che non ci sono più “eppure restano”. La poesia è tutta fisica. Quando lei racconta a Higginson cos’è la poesia lo provoca nuovamente, dicendogli che la poesia non si teorizza ma suscita uno stravolgimento fisico: a word made flash, a word that breathes distinctly.

La poesia di Dickinson non è allora una diagonale esatta che tiene uniti tutti i registri, il dettaglio domestico e l’astrazione, le distanze siderali e i corridoi del corpo ma respiro: espansione (anche dell’evento minimo) e contrazione, the smallest Human Heart’s extent Reduces it to none. Lì tra un respiro ed un altro, c’è una poetessa che nell’anticipare il futuro anticipa solo e meravigliosamente se stessa. Emily Dickinson è solo Emily Dickinson.

Silvia Acierno