Come molti scrittori che, tra Ottocento e Novecento, raccontano il mondo impiegatizio, anche per Federigo Tozzi quest’esigenza nasce da un dato autobiografico. Ricordi di un impiegato, uscito postumo nel 1920, raccoglie e rielabora le lettere dello scrittore alla futura moglie, inviate durante il suo periodo di lavoro nelle ferrovie, ottenuto in seguito a un concorso – «un lavoro proprio senza glamour», per citare una nota band italiana.

Il primo elemento di scarto che contraddistingue questi autori dalla realtà lavorativa in cui si inseriscono è proprio la loro attività letteraria, che li rende più sensibili rispetto alle criticità che ogni uomo esperisce all’interno del mondo del lavoro. Questo elemento, in Tozzi, si sovrappone al conflitto generazionale: i suoi protagonisti guardano al mondo degli adulti, dei padri, come a un universo regolato da rapporti tribali di forza. I figli, vessati dalla violenza paterna, non hanno la capacità di contrapporsi esplicitamente ai genitori, e possono quindi attuare la propria rivoluzione solo nell’intimità della mente.

È proprio all’insegna di questo conflitto primigenio che prende avvio la storia di Ricordi di un impiegato: il protagonista, Leopoldo, è costretto dal padre a trovare un lavoro. L’impossibilità di sfidare il volere paterno emerge immediatamente, nella contrapposizione tra le prime due pagine di diario del protagonista. Il 3 gennaio Leopoldo scrive: «Strapparmi dalle ubriacature di ozio e vagabondaggio, a cui mi sono liberamente abbandonato dai quindici ai vent’anni, mi pare una crudeltà raffinata. […] Un giovane intelligente e innamorato non ha il diritto di fare il proprio comodo? L’amore mi occupa tutto quanto l’animo; e mi pare l’unico mestiere che si confaccia alla mia coscienza e alla mia superbia. […] persisto nel proponimento di attendere, di giorno in giorno, una sorte privilegiata quale me la figuro. E non ammetto transazioni» (p. 129). Nella sua prima annotazione, il protagonista si presenta come un giovane intelligente, deciso, con una sensibilità molto spiccata, e dunque – per dirla con gli stilnovisti – più nobile degli altri uomini. Sembra sapere cosa vuole dalla vita e come ottenerlo, e sembra anche disposto a sacrificare tutto per poter perseguire il suo unico ideale: l’amore. È lui stesso a smentire la sua parvenza eroica nel frammento successivo, datato 5 gennaio: «Alla fine sono messo tra l’uscio e il muro da mio padre; che, elencandomi la sfilata dei fratelli e delle sorelle, mi convince a concorrere alle Ferrovie dello Stato. Un’occhiata, tra timida e dispettosa, a mia madre incinta e ancora giovane, mi fa chinare la testa e piangere» (p. 129).

Leopoldo rimane inerme di fronte al padre, ne accetta acriticamente la decisione: in poche righe passa dal non ammettere «transazioni» a «chinare la testa e piangere». Se nel primo frammento Leopoldo ci presenta il lavoro e l’amore come due tematiche indissolubilmente legate («l’amore […] mi pare l’unico mestiere che si confaccia alla mia coscienza»), nell’accettazione delle scelte paterne in ambito lavorativo vi è, implicitamente, una sottomissione anche nella sfera dei sentimenti. Infatti, come scrive il 1 febbraio: «Più di tutto, quando so che gli esami sono andati bene, mi dispiace lasciare la fidanzata» (p. 129). In questo passo, il protagonista mostra di aver elaborato la prima sconfitta: è consapevole che dovrà andare a lavorare, e sa che ribellarsi non servirà a cambiare il proprio destino. Al contempo, si prepara ad accantonare i propri sentimenti. Sempre il 1 febbraio, riporta uno scontro verbale con la madre: «– Vorresti portarti la moglie in casa nostra? Forse, ti pare che siamo pochi senza di lei? Io non ho il coraggio di risponderle; ma, con un tremito fin dentro i nervi del cervello, le faccio capire che non sono punto disposto a cedere. La guardo meglio, quasi spaventato di me stesso; ed ella, senza più curarsi di me, apre i cassetti del canterano» (p. 130). In realtà, anche in questo caso Leopoldo rimane zitto e inerme rispetto alle parole materne: l’unica risposta è un tremito interiore, che non viene colto dalla madre, occupata nelle faccende domestiche.

Gli appunti successivi testimoniano il periodo passato da Leopoldo a Pontedera, paese toscano in cui viene mandato a svolgere il proprio servizio. Pur distanziandosi dalla famiglia, e potendosi quindi slegare dal volere dei genitori, Leopoldo si ritrova immerso in un ambiente feroce al pari del proprio nido. Il protagonista non riesce a farsi accettare nel microcosmo del paese, non capisce come funzionino i rapporti con gli altri uomini, e viene quindi disprezzato tanto dai propri colleghi e datori di lavoro quanto dai proprietari della pensione in cui vive. Anche il mondo esterno ai legami di sangue sembra essere costruito su un sostrato violento e crudele. Incapace di comprenderlo, trascorre le giornate a scrivere le proprie impressioni, che non vengono mai rapportate razionalmente con la realtà fattuale. Il protagonista vorrebbe imporsi sugli altri, ma gli sembra possibile solo cercando una soluzione che lo esuli dalle regole di quel gioco sociale: «Che, forse, è necessario ch’io doventi cattivo; per non rinunciare al rispetto del mio animo? Sarei, forse, per accostarmi a quella cattiveria che dicono indispensabile imparare? Io, fin qui, credo di poterne fare a meno; per sempre. È così difficile dunque essere buoni?» (p.132).

Rinunciando alla cattiveria in nome di una bontà immacolata, Leopoldo rinuncia però al proprio inserimento nel mondo: non riuscirà a rivedere la fidanzata, che durante il suo allontanamento si ammala; né riuscirà a scegliere autonomamente un lavoro. Quando, alla fine del romanzo, decide di non tornare più a Pontedera, è solo grazie all’intervento del padre che gli viene concesso questo privilegio. Leopoldo, dopo la sua epopea, è costretto a riconsegnarsi ai propri genitori, senza aver nel frattempo capito come funziona il mondo degli adulti. In questo ritorno a casa, Leopoldo riesce ad attuare solo una piccola rivalsa. Consacrandosi per sempre al benessere della propria famiglia, il protagonista ottiene che alla sorella appena nata venga dato il nome della sua amata, Attilia. Celandone, ovviamente, il motivo:

«– Se non hai già scelto il nome, la devi chiamare Attilia.
– Non mi piace. E perché hai pensato a questo nome?
La verità non gliela voglio dire, perché sei sicuro che non glielo metterebbe […]
– Giacché tu sei tornato a Firenze per vederla appena nata, se mi prometti di non confonderti più la testa con nessuna ragazza, la chiameremo così» (p. 164).

Enrico Bormida