Sono passati vent’anni da La tregua quando nel 1982 Primo Levi pubblica, abbandonando in apparenza l’autobiografia con il diritto e dovere di testimonianza, il suo primo vero romanzo plasmando una storia che, in fondo, ha ancora molto da riferire. È un testo, a ben guardare, più citato che letto, più attraversato che analizzato nel suo magma di riflessioni e opportunità. Se non ora, quando? è il racconto di un nuovo viaggio di ritorno immaginato ma altamente plausibile, un’odissea lunga, difficile e, sotto certi aspetti, anche picaresca, di una banda di partigiani ebrei askenaziti, guastatori occasionali, con sabotaggi ferroviari o dirottamenti di lanci paracadutati, ma anche combattenti contro il nemico tedesco.
Costoro dall’estate del 1943, lasciatisi alle spalle i fronti, dalla Russia bianca, passando per la Polonia e la Germania o quello che ne rimane, mentre gli alleati giungono da Occidente e i russi sfondano da Oriente, si fanno largo tra le macerie, anche umane, di un mondo che è imploso in sé stesso e che non li contiene più. O meglio: non li ha mai accettati come propri abitanti. Il nostro sguardo si sofferma su occhi inquieti, ora fissi ora sfuggenti, pieni di richiesta, occhi da creditori o di chi si sente in credito nei confronti di chi è finito nelle fosse comuni, che attraversano boschi e strade secondarie con la colpa di essere rimasti vivi.
Sono uomini, certo provati e laceri, ma ancora uomini e non regrediti allo stato di bestie, che percorrono mille kilometri a piedi, sfiorano sempre la diffidenza della gente comune che incontrano per la loro ebraicità, osservano l’intorno circospetti e programmeranno nell’Italia la loro mèta, un porto da cui partire. E forse da cui ripartire per ricostruirsi la casa che hanno perduto e per ricominciare a vivere come gli altri.
Primo Levi scrive dunque ciò che non ha vissuto ma che avrebbe forse potuto vivere se non fosse stato arrestato e poi deportato a Auschwitz. In queste pagine riecheggiano l’episodio raccontato ne La tregua di un gruppo di giovani sionisti diretti in Palestina – che agganciano il loro vagone a quello degli ex deportati – ma soprattutto i resoconti di un suo amico che, nella Milano liberata del 1945, lavorava in un centro di accoglienza di profughi e altri scritti pubblicati negli anni ’70 che testimoniano la presenza di ebrei combattenti provenienti dall’Europa orientale. Un elemento, questo, che l’autore insinua nella coscienza e conoscenza del lettore contro il luogo comune degli ebrei come pecore condotte passivamente al macello.
Questa banda vive alla giornata, cammina senza sapere, sulle prime, dove vuole andare, ma lo fa perché deve camminare incalzata dall’urgenza di vivere, ogni suo componente ha alle spalle una sua storia diversa ma rovente e pesante come il piombo fuso. Avrebbero dovuto piangere numerosi morti se la guerra e tre inverni gliene avesse lasciato il tempo e il respiro. Sono uomini stanchi, poveri e sporchi, ma non sconfitti, sono l’inatteso in un mondo capovolto che vede gli ebrei alleati e armati come gli inglesi e gli americani.
Nella ricostruzione di Levi è gente allegra e feroce come animali a cui si schiude la gabbia, come schiavi insorti alla vendetta, di fronte ai quali gli uomini biondi e verdi della Wermacht fuggono. La loro è una guerra in cui non ci si volta mai a guardare indietro e non si fanno i conti, è quella di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un tedesco morto. La necessità li costringe a utilizzare l’unica forza che il nemico può comprendere: la violenza. Colpito il loro bersaglio, tornano poi a camminare inquieti.
Questi uomini sono gremiti di memorie ma pieni di dimenticanze, dispersi, né vivi né morti, fantasmi, che vivono come lupi e trovano la loro coesione nel ‘branco’ che li protegge dall’esterno e li riscalda al suo interno, riuscendo a condividere anche momenti di spensieratezza che permette loro di conoscersi meglio al di là di una lettura parziale dei loro animi. Sanno anche di trovarsi in un limbo di attesa senza tempo dove l’ancoraggio al presente è dato dalle notizie che arrivano di bocca in bocca o ascoltate per radio con l’assillo di una guerra che sembra lì lì per finire e che invece perdura ancora. E chissà forse altre ne arriveranno.
Nel loro variegato gruppo c’è il disperso dell’Armata Rossa, chi è fuggito dal lager, chi si è dato alla macchia in una natura impervia ma materna, che protegge e nutre, e anche un cristiano che segue la banda ebraica nelle sue peripezie, siglando una sorta di fratellanza oltre i dogmi religiosi. Nel loro viaggio verso Occidente, per quanto questo Occidente risulti sempre più vago, appaiono come orologi con la polvere nella cassa che ne inceppa i meccanismi interni ma, nonostante ciò, cercano in tutti i modi di rimanere in funzione perché lo devono a sé stessi e anche agli altri che non ci sono più, con sempre la missione di coltivare la vera risorsa di cui ogni uomo dispone, anche nelle situazioni più estreme: la propria terra interiore.
I contatti con altre bande partigiane di diversa estrazione e i contadini dei villaggi dove fanno sosta in cerca perlopiù di cibo ci sono. Non piace però vedere ebrei in armi perché i protagonisti del romanzo agli occhi degli altri sono prima ebrei e, solo successivamente, russi. Benché per loro ‘ebreo’ sia un aggettivo che definisce il loro essere russi di religione ebraica e sono quindi più attenti al loro patronimico, per quanto pochi parlino yiddish e alcuni siano anche atei, per tutti gli altri questo è un sostantivo che inchioda arbitrariamente la loro identità. Lo capiscono molto presto: di loro non ci fida anche se con altri combattono lo stesso nemico. Per i russi che incontrano sono una realtà ingombrante, per i polacchi una presenza che riaccende antichi rancori e da entrambi sono invitati a recarsi altrove. Levi in sostanza ci sta dicendo che comunque vada la Storia, nella sue pagine molto spesso «ognuno è l’ebreo di qualcuno».
Sono uomini dal coraggio estemporaneo e vario che non scaturisce da una scuola ma da un temperamento indifferente ai vincoli e che li porta a gettarsi come in un gioco con la logica e la fantasia dei talmudisti, la sensitività dei musici e dei bambini, la forza comica dei teatranti girovaghi, la vitalità che si assorbe dalla terra russa. Dalle opinioni politiche «striate, vaiolate e macchiettate, come le pecore di Labano» vivono ogni giorno l’incertezza e lo scoraggiamento che sono i sentimenti dei partigiani di tutte le epoche.
Riprendendo l’invito che è contenuto nel titolo del libro, tratto da una raccolta di detti di rabbini famosi, Levi, che inseriamo a pieno titolo nella voci autorevoli del Novecento italiano, attraverso l’esempio dei suoi protagonisti e una narrazione incalzante e coinvolgente, ci invita, con lampante attualità, a rivolgere tutte le nostre energie verso noi stessi. A rivendicare il nostro ‘io’, anche quando la vita ce lo ha restituito in frantumi, e a ricostruirlo, ora e non domani, nel modo più solido possibile perché non siano altri a farlo al nostro posto e perché è inutile aspettare che le cose si sistemino da sé. In Se non ora, quando? c’è la certezza che ognuno di noi, anche inconsapevolmente, porta in tasca la pietra che ha frantumato la fronte di Golia e può ricostruirsi il proprio destino agendo finalmente da protagonista…
Claudio Musso
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