La storia che racconta Totaro è quella di un rapporto che avanza ma con la staticità e tragicità di una vita che gira su se stessa, che non riesce ad uscire dalla tana. O meglio che è uscita, ha morso ma è ritornata dentro, ancora più dentro. Al centro c’è un odio oscuro e banale: quello di una figlia verso la propria madre. Un odio che sta sempre sul punto di trasformarsi in qualcos’altro, in un crimine, in una tragedia ma mai del tutto. Un odio che ha la necessità e la drammaticità di una storia che si ripete. Ada, la madre del romanzo, odia sua madre; Elisa, la figlia, odia Ada, sua madre. Ma non è solo l’odio, è piuttosto la consolazione che nessuna delle due ha ricevuto prima, da qualche parte nell’infanzia. Per ora, qui dove ha inizio il romanzo, nessuna delle due è stata capace di esorcizzare questa cosa che non è avvenuta o è avvenuta malamente. Non ci è riuscita Ada con le sue sedute dallo psicologo. Non ci è riuscita Elisa, una ragazza che la madre crede sul punto di laurearsi, ma di cui né Ada né noi sappiamo molto. E allora questa mancanza diventa una specie di conto in sospeso, un debito da pagare.

Tra Ada ed Elisa avvengono due incontri principali, che sono piuttosto urti: la cena sui Navigli, in una taverna dove non si mangia un granché e poi in Sardegna, su un fazzoletto di terra anonimo, quasi ai confini del mondo, spoglio e nudo come la verità che in questo incontro le due protagoniste pensano di doversi dire e noi crediamo per un attimo di riuscire finalmente ad ascoltare. Attorno a questi due incontri si addensano le due parti in cui si divide Un bacio dietro al ginocchio, il romanzo di Carmen Totaro. Cadere in un buco e poi senza sapere bene perché arrestarsi. Nella prima parte il narratore ci racconta della madre, di Ada, nella seconda, invece, segue Elisa. Ada si è preparata per uscire con sua figlia che festeggia il suo compleanno, ha comprato un vestito nuovo, di marca, apposta per l’occorrenza. Si è accesa una sigaretta anche se in genere non fuma davanti alla figlia (un primo indizio di una mancanza di spontaneità). Come per il vestito nuovo, anche la decisione di fumare stasera davanti alla figlia, sottolinea un nuovo inizio. O almeno questo è quello che sembra volere Ada. Mano a mano, però Ada va perdendo il controllo della situazione. Prima al ristorante, bevendo un bicchiere di vino di troppo, poi a casa, accettando l’invito della figlia a farsi un bagno caldo, poi quando accorrono i vicini e lei si ritrova al pronto soccorso senza sapere bene perché.

Nella seconda parte del romanzo, troviamo Elisa oramai lontana da Milano. Ha compiuto il suo gesto. Ha nascosto la chiave. Finalmente è lontana dalla madre, da un ambiente domestico tossico, in una specie di agriturismo in Sardegna. Eppure quest’anonimato non le basta, c’è qualcosa di lei che si vede ancora (“gobba, corno, verruca, bubbone”). Stavolta è lei a perdere il controllo della situazione. La presenza di Elisa destabilizza Ada, anche se lei vuole farci credere di avere tutto sotto controllo, di avere la figlia sotto controllo; così come la presenza di Ada destabilizza Elisa anche se lei vuole farci credere di saper controllare l’orrore. Nell’ultimo capitolo della seconda parte, quando le due donne si incontrano di nuovo, la narrazione si stringe e avanza implacabile da un punto di vista ad un altro, da Elisa, ad Ada, per ritornare ad Elisa. È una storia divisa in due: due parti, due persone, di cui l’altra è in qualche modo anche il proprio doppio, ma nel cui specchio nessuna vuole riflettersi perché fa male. Madre e figlia qui non sono in nessun momento capaci di pensare io sono la piccola lei, lei la piccola me.

Sin dalle prime pagine, prima che le due donne rientrino nella loro casa e poi in quel bagno, un senso di claustrofobia comincia a montare. Nelle stanze dell’appartamento sono serrate le emozioni che si vogliono evitare. Ada evita continuamente la figlia, la evita quando si propone di non litigarci, di non alterarsi, di assecondarla. La evita quando accetta senza sapere bene perché l’invito a bagnarsi nella vasca. Ma l’atteggiamento di Ada appena nasconde intransigenza nei confronti di Elisa. Anche Elisa la sta evitando quando le dice che non vuole deluderla, quando vuole prepararle una tisana, quando le scarta premurosamente la saponetta. Le parole su cui potrebbero incontrarsi non vengono capite e si sfumano rapidamente, sono occasioni mancate su cui la madre avrebbe potuto partorire di nuovo sua figlia o la figlia, piuttosto, partorire una madre. Ma questo non accade.

C’è una ferocia che non appartiene tutta ad un personaggio piuttosto che ad un altro, anche se il comportamento di Elisa sembra molto più spietato, quasi calcolato. È una ferocia in cui madre e figlia si alternano come una luce che cambia angolazione. Così ci immedesimiamo facilmente con la vulnerabilità di Ada, chiusa in quel bagno. Con l’ansia di Ada per la sparizione della figlia; vediamo i suoi sentimenti materni, i sensi di colpa, la sua sofferenza. Poi però la crudeltà di Elisa comincia a liquefarsi, vediamo le corazze che urtano e la lasciano nuda, le bugie scoperchiarsi, la confusione delle pasticche che resta appiccicata alla lingua e allo stomaco, e quel bisogno di calmarsi che niente calma. Cos’è andato storto?

Allora ci dimentichiamo della ferocia e vediamo solo quella parte di strada che è andata così perché né Ada né Elisa sono state capaci di reagire, preferendo barricarsi dietro a quel “che ne sai tu di quello che è successo a me, di quello che ho dovuto sopportare io”. Fino in fondo dove forse si trova la verità di un rapporto che si è costruito male o che a un certo punto ha preso una direzione sbagliata senza l’ingenuità di poterla catturare davvero quella verità, di poter toccare davvero le ragioni del trauma e della distanza. Totaro lo sa che dircelo sarebbe una falsità poco interessante. Ci dà degli indizi, che sono solo delle ipotesi. Forse o sicuramente “l’esplosione del padre”, la sua assenza, una separazione gestita male. Andiamo semplicemente giù dove tutto è primordiale e folle. Dove la ferocia e l’incomprensione sono diventate di cemento, prima di cominciare forse, appena, a ritirarsi.

Il rapporto madre-figlia che Carmen Totaro costruisce e racconta ha la tragicità e l’ambiguità di un film di Bergman. Penso soprattutto a Sinfonia d’autunno, uno dei film della tetralogia al femminile del regista svedese. Anche nel film di Bergman, Charlotte, la madre, ed Eve, la figlia, si ritrovano a cena. Una cena che ha piuttosto l’atmosfera di una trappola. Su una cena, su un  invito a cena, per niente casuale, come in Un bacio dietro al ginocchio.

Bergman metteva in scena la relazione madre-figlia, mettendo diabolicamente in scena anche la sua ex moglie Liv Ulmann, che interpreta Eve, (e il suo rapporto con le loro figlie), e un’ultima incredibile Ingrid Bergman anche lei una donna con i suoi figli avuti dal primo matrimonio da cui si era allontanata dopo l’unione con Roberto Rossellini. Due donne divise tra maternità e carriera, anche se, per alcuni, il regista avrebbe anche proiettato molto del suo conflitto personale di padre assente, assorbito dal cinema.

Di questo film, e delle due donne, il romanzo di Totaro possiede qualcosa che ha a che vedere con questa ferocia che anche nel film di Bergman sembra appartenere solo a Charlotte, la madre pianista, intransigente, che riesce a trasformare l’incontro con la figlia nell’ennesima occasione per dominarla e minimizzarla -quando non approva la performance al piano di Eve. Eppure sotto si fa strada la spietatezza con cui Eve l’ha attirata a casa sua, in una trappola, per gridarle addosso tutta la sua inadeguatezza di madre.

Ma la tragicità di Totaro non è quella tragica di Bergman, esasperata dal feticismo del regista attorno alle figure femminili. Bergman ha una serie di strumenti stilistici attraverso i quali amplifica l’angoscia. È come se quello che gli interessi davvero sia questo parossismo, la drammatizzazione. Anche il ritmo nei film di Bergman resta congelato nel montaggio, nelle scene che sono come fotografie dove ogni cosa è assolutamente, maniacalmente al posto giusto, secondo la volontà ossessiva del regista. E la tensione soprattutto rimane intrappolata nella scena, nel close up, come un animale in gabbia.

Qui invece la tensione è meno definita, perché in qualche modo i personaggi, Ada ed Elisa, sono anche essi meno definiti, sfuggenti (come siamo in realtà tutti noi), più “veri” e si trascinano dietro una specie di fiacchezza. Fanno vibrare la voce senza dire niente. Si commuovono anche se gli occhi restano cavi. Mordono dove non bisogna mordere. E noi ce ne rendiamo conto appena del morso e della paura. E così arriviamo in fondo. Ognuna si è confessata ed ha cercato di giustificarsi nel corso del romanzo, ma non all’altra, solo al lettore. Mi tormenti, volevo solo riempire la vasca, volevo che si allagasse tutto, dice Elisa. Ada ha immaginato di dire delle parole a sua figlia appena l’avrebbe rivista. Ma lì in fondo non sono capaci di dirsele. Ada non vuole fare passi falsi. Elisa la provoca. Sono intera, come vedi. Tu rompi i coglioni e basta. E continuano ad accanirsi, mentre le lacrime di Elisa restano sempre solo un principio di lacrima.

 E lì, in fondo, sembra che tutto sia come all’inizio del romanzo. Le rocche alte e il paesaggio desertico e assolato della Sardegna in cui Ada ed Elisa si ritrovano incombono come un cattivo presagio, come l’Almendral di Aracoeli. Lo stagno salato inquieta come la vasca in cui Elisa aveva invitato sua madre a bagnarsi. Parliamone adesso di quello che è successo, minaccia Ada. Di quello che è successo all’inizio del romanzo. Ma di nuovo come all’inizio, Ada si rimette a fuggire, perché quando vuole assecondare la figlia (“Ada si mostrò accondiscendente), in realtà vorrebbe solo fuggire. Perché non sa cosa consigliarle, cosa dirle. Il dialogo che avverrà oppure no tra madre e figlia, non è nello spazio del romanzo. Forse Ada non sarà capace di dirle quello che andrebbe detto e di cui non sembra cosciente. Forse Elisa troverà comunque la sua strada come un’erba forte e difficile da sradicare. Ecco, forse.

La cava dove è giusto lasciarle, non è una fine aperta (che vorrà dire poi questa cosa del finale aperto?) ma una metafora del rapporto genitore-figlio. E anche del romanzo: un contenitore dove le parole esplodono, vanno gridate, devono puntare in alto, descrivono una traiettoria prima di rompersi e scomparire, come quelle di Carmen Totaro.

Silvia Acierno

Vai alla tua libreria di fiducia o sul sito Bookdealer
Oppure compra su Amazon