Anno 1 | Numero 10 | Luglio 1998

Le belle storie, diceva Fitzgerald, si scrivono da sole, quelle brutte bisogna raccontarle… Una bella storia “scritta da sola“ quella in cui l’autore è talmente grande da riuscire a farsi piccolo e mettersi via cedendo il posto all’ispirazione; lasciando che le pagine scorrano, descrivano e raccontino con parole universali una storia singolare, sola e irripetibile. È questa l’impressione che si ha leggendo il romanzo di Jamaica Kincaid Autobiografia di mia madre, edito da Adelphi. Dove si narra il lento percorso di una donna nata “senza madre“, data in balia al mondo, ma tenacemente decisa a penetrare il mondo ad occhi e cuore aperti.

L’anima di Xuela, la protagonista della vicenda, come Jamaica Kincaid si nutre dei colori e toni della lingua inglese e della densa, rigogliosa sostanza umana della gente cariba. Ed è proprio grazie a questa miscela apparentemente incongrua e stridente che l’autrice riesce ad insinuarsi pervasivamente nel senso di un’esistenza dura, dove l’affanno di sopravvivere si intreccia la sostanza forte, cruda, piacevole o spietata della fisicità. Dove il processo di iniziazione alla vita, mai scansato, ma affrontato anzi con esemplare accettazione, costellato di insidie e prove che dissanguano il corpo come lo spirito; ma Xuela non si strema, non soccombe, non chiude gli occhi: e con parole piene, sfaccettate e impastate della stessa sostanza del respiro che la tiene in vita, ci avvince alla sua esistenza indicandoci le radici che l’accomunano alla nostra.

Il punto di vista, la voce narrante di Xuela è quello degli esseri percossi, nati e cresciuti ai margini del mondo e delle possibilità: ma è da questa povertà che l’autrice trae la propria ricchezza. Fermandosi a riflettere, a collegare i fili del destino con vitalità a oltranza, la Kincaid ci avvolge in una narrazione che vira nell’asserzione filosofica, nella ricerca di “un senso” che non sia risposte ma conforto, comprensione. E in questo la narrazione della Kincaid, seppur con linguaggio e tono assolutamente diversi, si avvicina a quella della Ortese: forte nella visione, ben definita nella trama, ma animata da un disegno etico, una sorta di amoroso bisogno di fratellanza. “Una storia, una storia romanzesca, è il rifugio dello sconfitto: lo sconfitto ha bisogno di canzoni per acquietare se stesso, ha bisogno di dolci melodie per consolarsi, perché il suo intero essere è una ferita; ha bisogno di un letto morbido per dormire, perché quando è sveglio si trova in un incubo, la sua realtà è il sogno del sonno.” Jamaica Kincaid scrive (ma verrebbe di fatto da dire “vive”, e forse non sarebbe un azzardo) per questo. Per tentare di alleviare, come ci insegna Sherazade, il peso naturale e comune di stare al mondo con la narrazione.

Chiara Tozzi

 

Jamaica Kincaid, nata Elaine Cynthia Potter Richardson è una scrittrice statunitense. Vive con la sua famiglia a North Bennington in Vermont.
Nel 1973 ha cambiato il suo nome in Jamaica Kincaid perché la sua famiglia disapprovava il fatto che scrivesse. La sua prima esperienza di scrittura riguarda una serie di articoli per la rivista Ingenue. Ha lavorato per The New Yorker fino al 1995.
Il suo romanzo Lucy (1990) è una descrizione immaginaria della sua esperienza di diventare adulta in un paese straniero e continua la narrazione della sua storia personale iniziata col romanzo Annie John (1985). Altri romanzi, quali The Autobiography of My Mother (1996), esplorano la questione del colonialismo e della rabbia che questo ricordo le provoca.
Ha inoltre pubblicato una raccolta di racconti, At the Bottom of the River (1983) ed una di saggi, A Small Place. Insegna scrittura creativa alla Harvard University. Ha inoltre ricevuto una laurea honoris causa in lettere dalla Wesleyan University.

Fonte: ibs.it

In libreria

Jamaica Kincaid
Autobiografia di mia madre
Adelphi, 1997
Collana: Fabula
Traduzione di D. Mezzacapa
174 p., brossura
€ 18,00

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