La cosa più semplice e vera da dire su Propizio è avere ove recarsi di Emmanuel Carrère (Adelphi, trad. Francesco Bergamasco) è che è magnifico.

Prima di comprarlo ho letto una recensione, con occhio molto rapido − le recensioni ​spoilerano​ e mi annoiano −, cercando LA frase (ogni recensione ha UNA frase, e di solito corrisponde a quello che vuoi sentirti dire). Se anche voi cercate qui LA frase − mi rendo conto non sia granché − la trovate proprio all’inizio, e ve la ripeto: P. è meraviglioso, leggetelo.  È una raccolta di saggi (più che altro una raccolta di storie), e questo rende plausibile la similitudine con un album: è come quei rari dischi dove tutte le tracce sono la canzone che ascolteresti sempre, e non ci sono pezzi riempitivi.

Questo ci porta a un altro punto: l’ordine di lettura. Le tre persone là fuori a cui piacciono i saggi (io non sono tra queste) in genere ne apprezzano la versatilità: skippano, si fermano, riprendono, tornano indietro. In breve: si creano il proprio percorso di navigazione tra i capitoli, libertà che il romanzo non concede.  P. sembra permettere questo tipo di “zapping”: tutti i (singoli) pezzi sono stati a loro tempo pubblicati su quotidiani o riviste, e in più sono molto corti (20 facciate max.); potenzialmente siamo di fronte a un vero ​libro a buffet.  Eppure, sarà una banalità, la disposizione ​data dei brani crea un bilanciamento perfetto tra gli ingredienti: ci sono dei filoni tematici che non si accalcano ma punteggiano tutto il libro, scompaiono e poi tornano, e quando uno è sul punto di averne abbastanza della Russia post-comunista, ecco che la Russia post-comunista fa posto alla cronaca giudiziaria, e torneremo a leggere di Russia solo quando ci mancherà. (Ci sono anche cose come introduzioni di libri, lettere ad amici o ex amici, idee per film mai realizzati, teorie sulla non-fiction). P. prosegue come un romanzo che presenta i suoi protagonisti uno a uno e vi torna periodicamente, ma il tutto è condito con un nuovo tipo di libertà-da-raccolta-di-saggi​ che vedremo tra poco.

LA frase della recensione che ho letto prima di comprare P. era più significativa della mia (la riporto come la ricordo): è un ottimo libro da cui partire se non si conosce Carrère, perché ricorrono − in germe − parecchie delle fissazioni che sono poi diventate i suoi libri. Un bigino di Carrère, insomma: molto bene, era quello che volevo sentirmi dire. (Calma: secondo una stima a spanne, il 90% del materiale risulterà nuovo anche a chi si è letto tutta la bibliografia; quel 10% consideratelo back-stage).

Io Carrère l’avevo ascoltato a un incontro con Alessandro Baricco, l’avevo visto ballare male alla festa del Salone del Libro nel 2015, ma di lui avevo letto solo Io sono vivo, voi siete morti, la splendida biografia di Philip K. Dick: si può dire che lo conoscessi ben poco.  Parlo al passato perché leggere P. vuole dire conoscerlo e incontrarlo, e l’incontro è un bell’incontro. Si potrà forse dire (non lo so) la stessa cosa di tutti i libri successivi alla sua “svolta non-fiction” − visto l’approccio, vista la voce, vista la sua perenne (gradevole, inevitabile) presenza nella vicenda che racconta.

Quindi, se è vero che consiglio di procedere con i saggi secondo l’ordine editoriale, è vero anche che la libertà d’azione tipica del saggio torna qui come libertà di associazione delle parti: per esempio − per me − il saggio sul Forum economico mondiale a Davos e quello sui putiniani e gli anti-putiniani raccontano una cosa sola; l’uno prosegue il pensiero dell’altro, perché io, leggendo, voglio concentrarmi su questa cosa e su quell’altra.

Chiudo con un brano, naturalmente. Qui Carrère parla dello scrittore di non-fiction, che deve sempre sostenere un rapporto umano con il protagonista del suo libro (cioè il tizio, reale e vivente, di cui scrive la storia). Sta gentilmente criticando chi crede che la natura di questo rapporto debba essere per forza disonesta, del tipo: conosci il tizio, gli fai credere che può fidarsi di te, gli freghi la storia, fuggi:

Personalmente ritengo che esista un limite, e che questo limite non marchi, come a taluni piace credere, la differenza tra lo status di giornalista − frettoloso, superficiale, privo di  scrupoli − e quello di scrittore − nobile, profondo, tormentato dagli scrupoli morali −,  ma tra gli autori che credono di essere al di sopra di ciò che raccontano e quelli che  accettano la scomoda idea di esserne parte in causa. 

P.S. Questa volta, mi rendo conto, la recensione non contiene nessuno spoiler, ma è proprio il libro di Carrère a contenerne rispetto ad altri suoi libri. E non troverete nessuno ​spoiler alert.

Alessandro Lusitani

 

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