«Era solo. Era abbandonato, felice, vicino al cuore selvaggio della vita». Con questa citazione in esergo di James Joyce cominciava Vicino al cuore selvaggio, il primo romanzo di Clarice Lispector, che, pur nell’eco di una scrittura così carica di dissolvenze da far pensare a certe pagine di Virginia Wolf, aveva già una sua dolorosa e lucida autonomia.

La storia della giovane Joana, che coniugava una primitiva sensualità al senso sfinente dell’ineluttabilità della morte (e non a caso lì la storia ruotava intorno all’inutilità del gioco di ruolo della maternità), racchiudeva in sé l’intera parabola letteraria della Lispector, un luogo dove la parola è, prima di ogni cosa, lo strumento per l’impressione, in un disegno meno incerto, delle epifanie della vita, nel tentativo, cosciente e vano, di riscattare il vuoto, nella straziante certezza che il segreto del nostro cuore è solo la bozza di un progetto del caos.

È per resistere all’ineluttabilità del destino che la lingua della Lispector ha costruito, pagina dopo pagina, una letteratura fluttuante come aria e acqua, non finita, aperta, circolare, in cui il senso della fine, intrinseco nella tirannia dello storytelling, viene sfidato dalla forma astratta del racconto. Ed è precisamente questo dell’astrazione il tema dominante di Acqua viva (Água viva, 1973, da poco nella nuova traduzione di Roberto Francavilla per Adelphi), ultimo romanzo e summa dell’esperienza artistica della scrittrice brasiliana, che se volessimo provare insensatamente a riassumere ruota intorno a una sorta di monologo-confessione di una voce, quella di una pittrice, che si rivolge a un amore finito (e per questo assoluto ed eterno), nel tentativo di restituire con la parola (unica vera maternità) le emozioni della pittura.

Lo spunto, fuori dell’esercizio di una retorica sinestesia, determina il tentativo di raccontare il caos e la vita nel caos, con lo sguardo di un dio vinto e, stanco, che, pur nell’ingenuo ricorso di un ente principiale – l’it –  scopre in ogni cosmogonia solo l’agonia del dolore del suo limite. Come nel Terrence Malick genesico di Tree Of Life, o nello strazio dell’increato dell’enorme Antonio Moresco, Acqua viva è il canto dell’impossibile voce che erge afona il suo stupore «di fronte allo scandalo della morte», cui Lispector, nella gelida bellezza della sua parola scavata nel liquido amniotico della disperazione, contrappone l’azzardo del mistero dell’invenzione della verità e la bellezza dell’amore.

“Água viva” in portoghese significa anche medusa, l’organismo trasparente che vive nella mimesi della trasparenza suprema del mare, ma, lontano dal cuore selvaggio dei nostri desideri, nulla c’è di più illusorio che la falsa trasparenza medusea dell’urticante disperazione della gioia più grande e dolorosa, che pur sembra limpida ed esperibile, quella dell’amore, che per non morire, muore.

Corrado Morra

 

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