«Perché ci vuole un sacco di tempo, o una poesia perfetta, per dire davvero le cose come stanno» dice, in una delle pagine finali, Elisabetta Maiorano, voce narrante del romanzo Almarina di Valeria Parrella (Einaudi, 2019). Lei è una professoressa di matematica di cinquant’anni che, dopo essere stata al Nord a insegnare, torna a Napoli, sua città natale. Vedova di Antonio, Elisabetta insegna al carcere minorile dell’isola di Nisida.

Almarina è una nuova alunna di Elisabetta: ha sedici anni, è romena, vittima di violenze inaudite da parte della sua stessa famiglia. È diversa dalle altre:

«Le ragazze entrano parlottando, mi salutano senza vedermi, invece Almarina mi sorride, e spalanca bene gli occhi. È in attesa di vedere che cosa capita adesso. Crede che io potrò darle il senso di cui ha bisogno, o lo credo io, che in una relazione è la stessa cosa

Un aggancio di sguardi crea, sin dalle prime lezioni, una sorta di preghiera di salvezza a doppio filo l’una nei confronti dell’altra: l’argutezza nelle risposte di Almarina, la sua curiosità, il suo sguardo limpido illuminano la classe e la vita delle due protagoniste di una luce nuova, come solo gli incontri autentici sanno fare. E questa è la storia di un incontro all’interno di un luogo di reclusione e sofferenza, un mondo fuori dal mondo, in cui i ragazzi e le loro storie irrompono con una necessaria irrispettosa violenza nelle vite di chi è lì per ridare loro una speranza:

«Quando entri qui dentro non puoi rifiutare più nulla, i detenuti di Nisida non ti chiedono il permesso di maltrattarti o accoglierti.»

Come ho sentito dire a Michela Murgia in una intervista nel podcast Copertina di Matteo B. Bianchi, queste sono “due donne che accadono”: semplicemente sono e si incontrano, ognuna con il proprio bagaglio di sofferenze sulle spalle, in una cornice bellissima e terribile, ai margini del mondo. Ogni parola in questo libro è scelta con coscienza meticolosa e con il colore più adatto per descrivere momenti e memorie che, pagina dopo pagina, costruiscono sia il pianeta personale delle due donne sia quel lembo di terra comune che le ospita momentaneamente.

Napoli è una presenza viva, fulgida e potente, una compagnia costante nella vita di Elisabetta che vive sola, abbandonata (così si sente lei), da ormai tre anni dopo la morte improvvisa di un marito molto amato:

«La città, prima della città, è solo mia ed è come io la voglio. È lei che mi ha salvato la vita: per non perderla mi strappo dalla tenaglia delle coperte, dalla chimica che mi protegge e mi costringe per molte ore. Sfido la casa vuota, il ricordo dei piedi nudi su quelli di Antonio già calzati… una tazza da sola sul tavolo della mattina non è un motivo sufficiente per svegliarsi. Napoli sì.»

E proprio Napoli in questo romanzo è una presenza salvifica non solo per la protagonista ma anche per i ragazzi detenuti che un giorno o l’altro, proprio lì da dove spesso arrivano, faranno ritorno. C’è una tenerezza dilagante nella visione che l’autrice ci trasferisce di questi adolescenti, «sono ancora così piccoli» dice lei -, che in Nisida, sebbene le sue regole siano rigide e inflessibili, trovano una madre che li accoglie e tenta, con ogni mezzo, di salvarli. Valeria Parrella apre e chiude continuamente istanze di realtà all’interno di una narrazione che, per il resto, pare sospesa su un filo invisibile che unisce Napoli a quest’isola nell’arcipelago del Mediterraneo. Ci sono sbarre da oltrepassare, procedure da attuare, documenti da mostrare per entrare e uscire da Nisida: i professori e gli operatori vanno e vengono in un andirivieni composto e silenzioso mentre loro, i ragazzi, restano là a riparare le loro fratture, a affrontare i loro traumi, a ricostruire i caratteri creando una «separazione disumana…uno strappo feroce» che è di tutti.

In questo libro si è costantemente dentro e fuori da qualcosa: dentro e fuori dal carcere, dentro e fuori dalle storie dei ragazzi, dentro e fuori dall’amore, quello negato e quello agognato, dentro la libertà della fantasia, fuori dalla libertà del mondo e Valeria Parrella ci accompagna, ad ogni passo, con il suo stile ricco e essenziale al tempo stesso, denso di senso in ogni sua riga ed encomiabile dal punto di vista della forma. Sono innumerevoli i passaggi che ho sottolineato leggendo queste pagine e molti quelli che mi si sono impressi dentro con la forza di un marchio a caldo sull’anima.

La lettura lenta di questo romanzo, perché è così che va letto a mio parere, ci costringe a tuffarci, privi di zaino e kit di sopravvivenza, nell’acqua azzurra di un mare immenso, quello della copertina del libro, che potrà cullarci o travolgerci, scalfirci o guarirci a seconda di quanto faremo entrare o meno il nostro giudizio, le nostre resistenze e le nostre paure: «Mi affido a peso morto alla tua presa, e tu con tutta la forza che tieni a diciassette anni mi tiri via dal pozzo e mi riporti in classe », dice in un punto topico Elisabetta ad Almarina.

In questi giorni in cui tutti noi siamo sospesi tra una vita dentro le mura di casa e una là fuori, a cui per il momento non è possibile accedere, questo libro è quella poesia perfetta, quasi profetica nel suo invito sotteso e costante a scegliere una libertà che è innanzitutto interiore e, senza dubbio, fomentata dall’amore per l’altro: «Se si vuole essere liberi, ci si deve sentire liberi» .

Ombretta Brondino

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