All’età in cui, normalmente, i poeti si affacciano alla poesia, Arthur Rimbaud aveva già chiuso i battenti della propria stagione lirica. A ventun anni abbandonò la letteratura per condurre vita di mercante nei paesi del Medio Oriente e nel corno d’Africa, ritornando in Europa solo per morire. Fu il più precoce e “maledetto” dei poeti di ogni tempo. A lui si appiccicarono etichette di divino, diabolico, soprannaturale. Produsse un nuovo Verbo, ostile all’accademismo da soffitta dei poeti parigini e in generale contro l’ottuso mondo borghese (ah la famosa Belle Époque e la celebre seconda rivoluzione industriale!) per il breve arco della sua vita meteorica.

Ma c’è un altro Rimbaud, anteriore e nascosto, dalle cui ceneri nascerà il genio rivoluzionario. Quello magmatico e ribollente prima della policroma esplosiva fioritura. Quando era ancora collegiale, Arthur non era affatto il dissacrante massacratore dei versi dei parnassiani parigini, né l’“uomo dalle suole di vento” come lo definì Verlaine all’epoca dei vagabondaggi. Tutt’altro. Fu un topo di biblioteca studiosissimo e sapiente, erudito più di tutti i suoi contemporanei e assiduo frequentatore della biblioteca comunale di Charleville. Grazie a un ingegno precocissimo e a una prodigiosa memoria visiva, apprendeva velocemente i testi letti. Componeva fluentemente in versi latini; traduceva con sicurezza dal greco: era il fenomeno del proprio collegio e vinse numerosi premi di composizione latina. In uno di questi egli immagina di essere visitato da Apollo che profeticamente gli rivela: “TU VATES ERIS”… Leggere i testi latini di Rimbaud, pubblicati nelle Opere pubblicate dalla Mondadori, è una delle chiavi per aprire la maestosa porta del genio rimbaudiano.

Oggi scelgo una quartina da un testo poco celebrato nei reading poetici su Rimbaud, in cui normalmente risuonano il visionario Battello ebro e il programmatico Vocali. Questa quartina è tratta dalla poesia: Quel che si dice al poeta a proposito dei fiori:

Trova dei Cardi cotonosi
Cui dieci muli dagli occhi di bragia
Si ostinino a filarne i nodi!
Trova dei Fiori che siano delle sedie!

Nessuno prima del ragazzo di provincia aveva scritto versi tanto ubriachi di bellezza visionaria eppure così lucidi nella veste formale (le quartine originali sono in versi alessandrini a rime alternate). Nessuno quanto lui seppe – e saprà – legare il demonio all’angelo, il caos eruttivo e iridescente col rigore dell’artista programmatico. E, dopo di lui, fu veramente il diluvio, come s’intitola una delle sue Illuminazioni. Ma è anche una poesia violenta, contro i poeti facili che nominano i fiori con gusto manieristico e senza nozioni di botanica. Così suona il rimprovero: “…forse non devi / Conoscere un po’ la tua botanica?”. E che dire dell’astro allora in voga, Grandville, che componeva vignette adatte a far caricatura di stucchevoli fiori in poesia: “Questi bambocci vegetali in lacrime / Cui Grandville avrebbe imposto dande, / E che furono allattati di colori / Dalle stelle maligne con visiera!”. Uno che parla così, è chiaro, o lo si ama o lo si odia, e all’epoca si fece odiare da tutti i poeti a cui Paul Verlaine lo aveva presentato.

Ultima chicca: quando nel 1972 lo scrittore canadese David Morrel dovette trovare un nome al protagonista del proprio romanzo First Blood narrante la vita di un reduce dalla guerra del Vietnam, scoprì che era veramente esistito un reduce dal nome di Arthur J. Rambo. Volle però che il suono ricordasse quello del poeta vissuto in un altro inferno, quello letterario e diversamente umano dell’Europa di fine Ottocento: Rimbaud, rispetto al quale siamo sempre in qualche modo in ritardo, irraggiungibile come l’alba che fugge tra i campanili e le cupole della città (come appare in un’altra delle sue Illuminazioni). Lo “Sposo infernale” che aveva, a leggere Paul Verlaine che lo aveva amato follemente, un bellissimo e inquietante “volto ovale di angelo in esilio”.

Fabio Barissano