Depressione, nichilismo, alienazione. Fight Club è la rivoluzione anarchica della Generazione X, ribellione agli schemi sociali, alla perdita di risposte, alla sovraproduzione. Chuck Palahniuk esordì nel 1996 con un romanzo disilluso e profetico, specchio del suo tempo. Nel 1999 David Fincher ne trasse il film omonimo diventato una pellicola di culto.
Fight Club col suo ritmo soffocante racconta la parabola di un uomo risucchiato dal consumismo, diviso a metà da se stesso, pronto a rompere le regole della società per distruggerla, annientarla e renderci liberi dagli schemi già prefissati dalla nostra nascita. Il protagonista è un uomo comune, con i suoi fantasmi e i suoi problemi, alienato dal suo lavoro, fagocitato dalla produttività, dal suo appartamento con mobili perfetti, dalle sue camicie perfette, dalla sua facciata perfetta. Per Palahniuk ciascuno di noi è quell’uomo sulla trentina, stanco della sua vita, intrappolato in uno schema, distrutto dalla ripetitività, che forgia un nuovo se stesso per sovvertire il mondo.
La seconda personalità, quella risvegliata dal coma della società, è Tyler Durden, l’artefice della creazione del Fight Club e del progetto Caos, il burattinaio che muove i fili.
Fincher riesce a mantenere il ritmo serrato del romanzo, sulla pellicola, e grazie al supporto di attori eccellenti, indaga i personaggi, li scruta, sposta lo spettatore verso il loro punto di vista, ne illumina le complessità. Una regia e un montaggio dinamici che non censurano, ma anzi mettono in risalto lo squallore, la degradazione, la discesa agli Inferi, il sangue, la putrefazione di ogni singolo personaggio.
Ma il linguaggio di Palahniuk rimane leggenda. La voce dell’anonimo protagonista di Fight Club è unica, ha dato vita a un nuovo stile universale. L’assenza di pudore, l’aggressività, le ripetizioni, la crudeltà e la violenza, tutte peculiarità di un lessico narrativo inimitabile, impossibile da riprodurre sullo schermo.
Fight Club è un libro-scatola cinese. Dal conformismo della società occidentale, Palahniuk distende una mappa di crepe dell’umanità. Tyler è il prodotto di una personalità ormai nell’oblio, che ha perso la sua unicità, a causa di un sistema organizzato e schematizzato secondo regole ferree. Se non rispetti quella regola, sei fuori. Nasci, studi, ti trovi un lavoro, ti sposi, arredi la tua casa, muori. E alla fine “le cose che possiedi ti posseggono”, il tuo impiego ti possiede, la tua stessa vita è una grande depressione. Non c’è via di scampo, se non lo sradicamento di quelle norme così radicate nella nostra mente, la creazione del totale caos, l’esplosione della normalità. L’obiettivo è ripartire da zero.
Il nostro protagonista è annichilito da un’esperienza vitale fatta di ripetizioni, automatismi innaturali, bisogni indotti. L’insonnia da cui è affetto è il sintomo della sua lenta ribellione a ciò che gli è stato imposto fin dalla nascita. È il suo percorso di purificazione per la creazione di un alter ego che non abbia limiti e imposizioni. Tyler è anarchia, libertà, sovversione. È la consapevolezza di una rinascita che spinge l’altro da sé a cadere fino a toccare il fondo per poi risalire, da uomo nuovo.
Tyler è la nostra coscienza assopita dai bombardamenti dei mass media (oggi social), dalle multinazionali, dagli interessi dei grandi gruppi, che si ribella e combatte.
“Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!”
Liberarsi dalle crescenti imposizioni della società non è facile e Tyler è disposto seppur in maniera altrettanto sbagliata, a correre tutti i rischi.
Tyler, Marla, l’anonimo protagonista, sono tre sguardi su una società uguale a se stessa che produce e non si ferma mai, non lascia indietro nessuno.
Fincher riporta le loro personalità dalla carta alla pellicola rendendole vive, vere, esaltandole. Lo sguardo perso e arreso di Edward Norton, la rabbia e l’impulsività di Brad Pitt, la tristezza e la solitudine di Helena Bonham Carter, tre personaggi, tre fotografie della società degli anni ’90, attuali ancora oggi. Fight Club è stato ed è rimasto un film cult, proprio per la sua universalità nel tempo, per il suo linguaggio che rimane oggigiorno comprensibile e sempre più vero.
Le assicurazioni che coprono i fallimenti delle case automobilistiche, le cene di Gala dei ricchi borghesi, ogni lavoro nasconde in sé un marciume di un’aggregazione di individui che sta naufragando. E al quale ognuno di noi cerca di sfuggire in un modo o nell’altro. C’è chi si rifugia nei gruppi di sostegno, chi sabota le pellicole nei cinema o le pietanze nei rinfreschi, e chi crea un fight club in cui si assaggia terra e sangue.
Palahniuk, Fincher, danno vita a un’immaginaria (non troppo) ribellione all’assoggettamento delle regole, che vogliono l’uomo una macchina di produzione efficiente e sempre attiva. Chi non appartiene a tale categoria è fuori dal giro, è un emarginato folle come il protagonista, come Marla, come i malati dei gruppi di sostegno (Bob). La malattia è il segno di un’era che ci sta consumando.
Il romanzo e il film sono due facce di una stessa medaglia, l’uno non può vivere senza l’altro. Per conoscere Fight Club è necessario leggere la prosa provocatoria di Palahniuk, e per veder agire Tyler è necessario rimanere incollati allo schermo per assaporare la pellicola di Fincher, scritta da Jim Uhls.
La potenza del messaggio di Fight Club è universale, ci arriva dritti al cuore, rendendoci consapevoli di essere ingabbiati da definizioni, regole, fili invisibili che ci conducono dove è stato prestabilito. Siamo ancora quella Generazione assopita, ma siamo sempre più ad essere svegli, fautori del nostro destino, pronti a svincolarci per vivere secondo un nostro schema, a lottare per essere liberi.
“È solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa.”
Ilaria Amoruso
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30 Gennaio 2022 at 21:44
a toccare il fondo per poi risalire, da uomo nuovo.