«In principio era il verbo» si potrebbe dire, ma anche tante altre cose. C’era la carne e il sangue, il cielo e la terra, i padri e le madri con cui rapportarsi, un destino. E dopo ancora gli angeli “incustodi”, incapaci di proteggere eppure ligi alle apparizioni, per conto di cosa non è dato sapere. Fiori estinti (Terra d’ulivi edizioni, 2019) ha da fornirci numerosi spunti, frutti fervidi della mente di un giovane poeta, Mattia Tarantino, precocemente posseduto da un daimon che si manifesta con un linguaggio in bilico tra la tradizione cristiana e quella ellenistica.

In Fiori estinti imperversano potenti spiriti, occulte presenze, divine circostanze espresse da toni biblicamente apocalittici e perturbatori. L’incombere del tragico che pervade l’opera porterebbe a ipotizzare una declinazione decadente in chiave attuale della poesia, ottenuta da un fare versificatorio che affronta l’oscurità della luce e dei propri simboli con tinte sanguigne e oscure. Vi è un rovescio di ogni figura fondamentale, Dio, in primis, che sembra quasi non esistere, le figure genitoriali, e persino il cielo e le stelle. Ogni punto di riferimento naturale si ribalta e diviene prodromo di una maledizione senza tempo.

Dunque oltre al daimon, si avverte sullo sfondo il demoniaco in un’aspirazione quasi luciferina, se non fosse per la mancanza di ribellione al divino che sembra quasi coincidere con il destino, ossia un tragico se stessi. E se questi temi non sono del tutto nuovi, Mattia Tarantino si rivela essere stilisticamente più novecentesco di ciò che potrebbe trasparire di primo acchito. Si noti la carica ossessiva a tratti degna di un’Amelia Rosselli, sebbene meno delirante e eroicamente arresa in un’arte propriamente declamatoria che cede il passo alla musicalità. Forza tellurica della nuda voce contro l’incomunicabilità dell’essere umano che si ritrova schiacciato dalla contingenza dell’irrealtà. Proviamo a intravedere quanto detto in alcuni versi.


Vorrei guardare il cielo

Vorrei guardare il cielo, ma le stelle
mi aprono il sangue e disturbano
i versi in bocca ai morti:

stanotte mia madre non partecipa
al pane che si spezza, non consente
né risate né preghiere, capovolge
tutti i nomi e li scavalca;

stanotte mio padre non ricorda
quante volta ha indovinato, quante volte
la parola gli ha mozzato la parola.

Stanotte prendo l’ago e cucio
i miei occhi agli occhi di mia madre, prendo
un piccolo coltello e svuoto
le mie ossa nelle ossa di mio padre.

Vorrei guardare il cielo, ma le stelle
le ho tra i denti e fanno male.


Il destino, rivelando la propria tragica natura, presenta il conto. Persino le stelle, il desiderio supremo e simbolo dell’universo, sono relegate al dolore. In questo vi è una coincidenza tra l’Essere e la dannazione in cui ogni desiderio può essere causa del dolore, ma l’aspirazione resta pura, il guardare in alto una costante sebbene gli strascichi della maledizione dominino l’essere umano. Tra la volontà e la colpa la bilancia pende in favore della seconda, impedendo sviluppi futuri.

Si è vittime dei propri fantasmi, delle impossibilità, delle mutazioni e di conseguenza dell’incapacità di realizzarsi. Irrompe la violenza con un potenziale mortale: che sia la morte, in fondo, la più alta forma di conoscenza su questa terra? Non esiste una risposta, non si può ottenere qualcosa di preciso e netto da affrontare e sconfiggere. Il malessere si fa etimo, dannazione primigenia, aspirazione innervata nel primitivo dove il logos si scompone perdendo la propria capacità di penetrazione e, probabilmente, la sua ragione d’essere. Resta la vibrazione a fare da testimonianza, l’ombra delle cose ormai scomparse, la sospensione e la forza del non detto quale proverbiale e umana strategia di sopravvivenza. Non ci sono fiori né occhi per il dopo.

Qualche fiore

L’angelo che emerge dalla crepa
strazia e trama, crocifigge
la luce che tossisce nelle vene.

I bambini sono a offrire ostinatissimi
qualche fiore dal giardino dove il passo
di un Adamo malaticcio ancora vaga:

rose orrende del giardino, mi acclamate
quale voce che vi ordina e vi taglia.

Federico Preziosi