“La terra di Flannery O’Connor è argilla rossa”: scrive così Antonio Spadaro, nella sua prefazione a Flannery O’Connor, il mistero e la scrittura, di Elena Buia Rutt (un libro imperdibile). Argilla rossa, pensate a questo. Ci troviamo a Milledgeville, nel cuore della Georgia, a sud del Paese.

Abbiamo guidato fin qui sul nostro vecchio pickup, venendo dal Colorado di Williams – di John, ricordate? – venendo da Denver. Adesso siamo in Georgia.

Non è né grande né piccola, Milledgeville, sulle rive del lago Sinclair, attraversata dal fiume Oconee: 18.614 residenti, secondo il censimento del 2018, eppure è un centro importante, o almeno un tempo lo era.

Capitale dello Stato, niente di meno, durante la guerra di Secessione, prima di Atlanta.

Argilla rossa, polvere nel vento caldo. Nuvole di terra rossa alzate degli pneumatici del nostro vecchio pickup. Un giro in centro paese: poi, allontanandoci un po’ dalla polvere, all’improvviso una macchia di verde in pieno rigoglio, e il tetto rosso di una fattoria.

Scandole bianche e un bel portico con sedie a dondolo, bianche anche loro. Un vialetto che taglia un prato curato. Una scala d’accesso in mattoni. L’ombra degli alberi.

Niente di troppo elegante, eppure il nome della fattoria è un nome esotico: Andalusia. Era una cotton plantation, prima che lo zio di Flannery se la comprasse, nel 1931, per trasformarla in una dairy and beef farm. Vent’anni dopo, appena uscita dall’ospedale di Atlanta e molto debole, Flannery vi si trasferì – aveva 26 anni – per viverci insieme alla madre fino alla morte, nel ’64.

Oggi è un museo – al 2628 di North Columbia Street.

Se parcheggiassimo lì, avendo prenotato una visita, ci troveremmo il suo letto, le sue coperte e le tende, la sua scrivania, il tavolo da pranzo in legno scuro con una zuppiera nel centro. Qualche pavone impagliato e pavoni vivi, in grandi gabbie pulite, come se il tempo si fosse fermato, come se lei fosse sul punto di uscire di casa e chiamarli, uno per uno, per nome.

Foto e ricordi sulla mensola sopra il camino.

Persino le sue stampelle.

Andalusia, un nome esotico nel Sud rurale.

Flannery scriveva lì, la mattina – al piano terra scrisse il suo primo romanzo, La saggezza nel sangue, pubblicato nel ’52 – poi, con la madre Regina, andava in macchina alla Sanford House, abitazione privata molto elegante su West Hancock Street, riconvertita nel ’51 a sala da tè. Facevano colazione.

Il pomeriggio, leggeva o dipingeva – polli e fagiani, a sentire lei, i suoi soggetti più cari: “Mia madre dice che vado forte” – e si occupava, come poteva, dei suoi pavoni, delle anatre, dei fagiani e dei polli – Regina allevava mucche.

Amava moltissimo i suoi pavoni.

Al momento ne ho 27. Qui di notte sembra di essere nella giungla, perché urlano e strepitano alla minima perturbazione atmosferica o rumore meccanico. Oltre ai pavoni ho anatre, oche e varie altre specie di pollame, anche se i pavoni restano la mia passione. Ci passo le ore seduta con loro sui gradini del cortile.

In questa foto la vediamo seduta su quei gradini, ad Andalusia, in compagnia dei pavoni. Piccola, in lontananza: una giovane donna della metà del secolo scorso.

Malata, come suo padre, di Lupus.

Scriveva un sacco di lettere, tra le altre cose – “l’estate prossima verrò a trovarvi”, “vi sto pensando”, “qui fa troppo caldo”, “i Russi che vanno sulla luna non sono che un piccolo diversivo per noi”, “un abbraccio dal caro vecchio lurido sud”.

Poi un ricovero, il ritorno a casa, una conferenza da preparare, con le stampelle accanto a sé. Scrivere un altro racconto, un’altra lettera. Pensare ai polli e ai pavoni. Un altro crollo, un nuovo ricovero, una terapia. Tornare a casa distrutta, davvero a pezzi, e rimettersi a scrivere.

Il cielo della Georgia, sempre diverso, sempre immutabile, scorreva sulla sua testa – e sulla nostra, in questo momento, immaginando di trovarci a Milledgeville, paese dagli antichi fasti, in quel rigoglio di verde.

Una scrittrice eremita, si definiva così, imbottita di cortisone per tenere a bada la malattia, o per tentare di farlo. Felicemente eremita, però: la fattoria, una fortezza da presidiare; l’isolamento, una benedizione.

Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire.

Ma si teneva in contatto col mondo – lettere e viaggi, sempre più rari, e conferenze – ed era ironica e divertente, acutissima, caustica. Concreta e visionaria. Profondamente cattolica ma nemmeno per un secondo bigotta, tutto il contrario. Piena di spirito: è una frase fatta, lo so, ma che per lei è da intendersi in senso letterale.

Sentite questa, da una sua lettera scritta durante un ricovero, uno dei tanti, al Piedmont Hospital, nel 1960:

All’arrivo, quando ho lasciato i dati all’accettazione, la tipa, capelli color carota e occhiali in tinta, mi ha chiesto presso chi ero impiegata. “Lavoratrice autonoma”, faccio. “Di che si occupa?”, fa lei. “Sono una scrittrice”, dico. Lei smette di battere a macchina e un attimo dopo fa: “Che?”.
Scrittrice”, dico.
Lei mi guarda un po’ e poi fa: “Come si scrive?”.

Riesco a vederla sorridere, scuotendo appena la testa e alzando gli occhi dal foglio, sul letto dell’ospedale. Riesco a sentire una breve risata, la sua.

Profondamente cattolica, stavo dicendo, nel Sud protestante. Votata all’Incarnazione e alla Rivelazione – provate a leggere, se non l’avete mai fatto, i suoi racconti Il tacchino e La veduta del bosco, ad esempio– votata al mistero delle nostre vite. La densità del mistero dell’esistenza, che è territorio del diavolo e della Grazia, della perdizione e della salvezza, del male e del bene, ed è ciò che abbiamo, “soltanto” questo – concreta, appunto, e vertiginosa – ciò a cui dobbiamo guardare. Il mistero della libertà e della personalità, della nostra posizione qui, sulla Terra, coi piedi piantati nell’argilla rossa, il nostro campo di battaglia, l’unico.

La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa.

Polvere, argilla rossa, polli e pavoni. L’Incarnazione e la Grazia. Una giovane donna, malata e combattente, pronta a picchiare duro.

C’è un episodio importante che merita d’essere qui ricordato. Immaginate la nostra Flannery a cena con la scrittrice Mary McCarthy – in una lettera, molti anni dopo, la definirà Big Intellectual, un’intellettuale con la I maiuscola: di nuovo, riesco a vederla sorridere, ironica. Ci sono anche Robert Lowell e sua moglie, Elizabeth Hardwick: sono loro ad aver invitato Flannery a cena.

Ma soprattutto c’è Mary McCarthy.

Flannery non dice nulla, non condividono molti argomenti. In piena notte – è quasi l’alba, in realtà – arrivano, chissà perché, a parlare di Eucarestia. Mary McCarthy, Big Intellctual, la considera un simbolo, soltanto un simbolo: lo dice come se fosse ovvio. Cos’altro dovrebbe essere?

Tutti si aspettano che Flannery sciorini in risposta un discorso ben argomentato, un guizzo di teologia riguardo a quel sacramento. Parole e parole – dopo tutto aveva letto e conosceva bene Tommaso d’Acquino. Ma lei invece risponde, la voce tremante, indignata: “Be’, se è un simbolo, che vada al diavolo”.

Semplice, no?

No, niente affatto. Radicale, piuttosto.

Non avremmo bisogno di nessun altro episodio della sua vita – brevissima – per capire com’era, cosa pensava, come pensava. Se è solo un simbolo, se non ci chiede nient’altro, nessuna lotta, nessun impegno, se possiamo parlarne a cena, tra amici, e liquidare il discorso da grandi intellettuali, quelli con la i maiuscola, per poi andare tranquilli a dormire e chi si è visto si è visto, allora, be’, che vada al diavolo.

Tutta qua la mia difesa, ma ora mi rendo conto che non sarò mai in grado di aggiungere altro, fuorché in un racconto, se non che per me rappresenta il centro dell’esistenza: il resto conta poco o niente.

Quello che vi ho raccontato ci porta dritto ai suoi racconti e romanzi. Alla sua scrittura, al modo in cui lei la vedeva (e a quanto la sua visione abbia informato la mia, come dell’acqua versata da un bicchiere all’altro: sono vent’anni che in fondo vivo con Flannery in quel rigoglio di verde, presidiando la mia infinitamente più piccola fortezza, e che rifletto sul mistero, sulla radicalità del raccontare una storia, sull’incarnazione nei personaggi e, sì, sulla Grazia, che, nelle mie storie, è diventata la compassione alla fine dell’oscurità, del brancolare nel buio di ciascuno di noi).

È una visione, quella di Flannery O’Connor, che può cambiare la vita di un’altra scrittrice, di un altro scrittore. Credetemi: la può cambiare sul serio.

Ora i pavoni, dentro le gabbie pulite ad Andalusia, non sono quelli del ‘64, ovviamente – se ci fermassimo fuori, nel verde, a guardarli. Ma lei potrebbe comunque spuntare sul portico, tra le sedie bianche, e sedersi lì sui gradini. Potrebbe farlo, in qualche modo. Potrebbe dirci: “Fa troppo caldo”, magari, poggiando le sue stampelle.

Saprebbe che siamo venuti per lei? Credo di sì. Le basterebbe uno sguardo. Sarebbe bello.

Si chiamava – si chiama ancora – Mary Flannery O’Connor. Quand’era piccola, aveva insegnato a un pollo a camminare all’indietro, e la rivista Pathé aveva persino mandato qualcuno a filmare il prodigio.

Era un prodigio, davvero. E se tutto questo è solo un simbolo, be’, allora che vada al diavolo, no?

To be continued…

Nota a margine: questa tappa del viaggio, come quelle su Carver e Williams, va proprio al cuore di quello che intendo per “scrivere”. Non c’è un altro modo per dirlo. È come mostrarvi qualcosa a cui tengo moltissimo, qualcosa di me. Ma volevo farlo, davvero.

Elena Varvello

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