Due almeno sono le doti che hanno permesso a Michela Marzano di scrivere un romanzo come Idda: la tenerezza, quella che lascia una carezza in più dell’empatia, e che sicuramente dovrebbe essere anche una virtù di chi narra storie (Le narrateur tendre, di Olga Tokarczuk), e la capacità di proiettarsi negli altri, capacità che possediamo tutti noi, che gli scrittori sanno usare abilmente, e che in Michela Marzano è meravigliosamente pervasiva. Lei e la sua scrittura sono generosamente nell’altro, senza nasconderlo troppo. Dialogare, proiettarsi, accorciare le distanze e stabilire un legame intimo con l’altro. Così accade quando scrive di come osserva la madre raccolta a sferruzzare un maglioncino per il figlio di suo fratello, e d’un tratto lei, Michela, e il suo desiderio di maternità stanno lì tra le mani della madre che, oltre al filo, sta tessendo anche le sue emozioni e mortificazioni di madre, assieme a una specie di nostalgia, quella di Michela, per le cose che non sono accadute. Quando vede nei suoi studenti dei figli. Quando scrive delle donne maltrattate. Quando vede la madre del suo compagno ammalarsi di Alzheimer ed è come se stesse vedendo anche se stessa, anziana, forse malata della stessa malattia, forse con accanto lo stesso compagno, o forse no. Queste sono le emozioni molto intime che Michela Marzano confessa in un articolo sul Foglio, e che stanno sul fondo di Idda, intrecciandosi nella doppia narrazione, quella della storia di Annie, la madre del compagno della narratrice, e quella della narratrice, Alessandra, che è quasi scappata dall’Italia e si è fatta una nuova vita a Parigi, tagliando ogni ricordo, ogni ponte, anche linguistico con la città natale.

In questo romanzo, Marzano racconta l’Alzheimer, e le molteplici questioni filosofiche ed etiche che la malattia e questo tipo di malattia in special modo trascina con sé: l’identità, la memoria, l’altruismo, la cura… E vorrei cominciare proprio da qui, da questo intersecarsi di filosofia e finzione. La scrittura femminile è forse intimamente portata a queste commistioni ed interconnessioni. È legata alla capacità di lasciarsi attraversare da quello che sta intorno a noi, di toccare il fondo delle cose indagando gli accadimenti minimi, una storia personale altrimenti ininteressante, il movimento rumoroso della vita quotidiana, in cui è spesso immersa, dove saltella, con cui si urta e da cui è urtata, nonostante il moltiplicarsi delle stanze tutte per sé in cui raccogliersi, in cerca di quel filo che spicca come il filo bianco di un’imbastitura. Perché di quel fondo si impregnano le cose che spesso abbiamo lì sotto agli occhi. Perché nelle cose che ci circondano e nel via vai in cui nasce la scrittura si aprono squarci di meraviglia. Michela Marzano, filosofa e scrittrice, porta questa idea di letteratura cucita con i frantumi o residui più o meno banali dell’esistenza fino alla scelta di accantonare per un momento la scrittura saggistica, qualsiasi progetto puramente analitico, riconoscendone così tutti i limiti. Perché spesso la logica e la sintassi formano una gabbia, un ostacolo per arrivare al lettore, ed un ostacolo per lo scrittore, mentre il romanzo offre la possibilità di entrare nel labirinto, lasciarsi andare alla corrente narrativa, seguirne i meandri, la complessità o banalità, il disordine e le ambiguità, con un linguaggio più immediato e in fondo plausibile, evidente (“écriture de l’évidence”). Un progetto narrativo dunque che si avvicina a quello di Simone de Beauvoir: non fare filosofia frontalmente, tenersi in mezzo tra pura filosofia e pura letteratura. Questo approccio “volgare”, meravigliosamente volgare, Beauvoir in fondo lo sperimenta in tutte le sue opere. Le deuxième sexe è un pre-testo, preliminare filosofico che accompagna il lavoro letterario, ma comunque pieno di contaminazioni. Nelle memorie, dove la biografia raccontata au jour-le jour aspira ad essere anche la scrittura di una vita etica, nel senso che lei, filosofa esistenzialista, attribuiva alla morale intesa come la responsabilità della ricerca della libertà , e, al tempo stesso, il racconto si impone come opera letteraria.  Ne Les Mandarins, dove il romanzo impegnato, l’euforia e le delusioni del socialismo intellettuale francese dell’après-guerre, e quindi la questione etica dell’impegno politico degli intellettuali, si agitano assieme alle scelte più intime della protagonista (una psicoanalista invischiata in una relazione a tre) che, così come la scelta della forma stessa del romanzo, confondono ogni certezza. Ma soprattutto in Une morte très douce, in cui la scrittrice non voleva scrivere né un’opera engagée né un’opera letteraria in senso classico ma raccontare l’accanimento medicale, la malattia, la sofferenza attraverso la quotidianità scarna di una madre prossima alla fine e di due figlie, lei e Poupette, che le fanno visita fino a quel “c’est fini” in cui prima o poi sprofondiamo tutti noi. Dove Beauvoir, questa donna sempre in espansione, perde il controllo della situazione, controllo della sua vita e in qualche modo del racconto, e della necessità programmatica che il racconto “polverizzi” la realtà, la pura quotidianità, “la vita vera”. Ed è questa sensazione di essere sommersa, di perdita di forza, che mi rende specialmente cara questa Beauvoir. In questo racconto, Beauvoir forse anche solo per poco si blocca di fronte alla sofferenza e poi all’agonia della madre, e la distanza dal letto d’ospedale diventa quasi impraticabile. Ed è qui che Marzano prosegue il cammino.

Al di là della trasversalità della filosofia come progetto narrativo, Idda vive come romanzo animato da ragioni poetiche, soprattutto quando queste sfuggono alla sorveglianza della narratrice Alessandra e con lei a quella dell’autrice. Quando toccano il suo essere più profondo e raccontano il rapporto tra Michela-Alessandra e la maternità. E questo, almeno per me, permette davvero come una finestra di entrare nei temi di cui la filosofa ci vuole parlare. Il cuore di questa opera letteraria è il desiderio di maternità che Alessandra reprime assieme a tutto il resto, in un processo, parallelo a quello di Annie, di perdita della memoria: mentre Alessandra ha scelto un’apnea delle emozioni, ha deciso di dimenticare quello che è accaduto in Italia, nella casa di famiglia e di scappare, Annie in seguito alla malattia ha cancellato tutto quello che è venuto dopo, dopo la casa paterna. E scendendo ancora più giù, il nocciolo duro di Idda è proprio la mancanza: sentire la mancanza di qualcosa che avevi e si è perduto, sentire la mancanza di qualcosa che non esiste ancora ma che in realtà è già là, come un figlio che non è ancora nato, ma che nascerà, perché il desiderio è già vivo; e soprattutto, sentire la mancanza di qualcosa che non si potrà mai avere.

Ognuno di noi ha o avuto una persona cara che più o meno anziana ha perso coscienza di sé a causa della stessa malattia di Annie o in seguito ad altre forme di senilità. È capitato anche a me. Eppure tutto quello che potrei raccontare sono le mie emozioni infime e potentissime rispetto a questo accadimento. La caduta improvvisa, come se tutti i pezzi di sé e del cuore fossero crollati di colpo, bruscamente tutti assieme, quella mattina in cui ricevi la telefonata e ti precipiti assieme a tua madre, come se tutte le avvisaglie, i discorsi ripetitivi, la fissazione del racconto non ci fossero mai state. Perché non ce ne siamo accorti? O piuttosto, perché ce ne siamo tutti accorti e non abbiamo fatto niente? Guardami nonna, sono tua nipote, perché non mi riconosci più? Perché tutte le donne, figlie e nuore, che si affannano attorno a te, non piangono, perché ti assecondano o fanno finta di niente? Perché volete sempre coprire tutto, tutta la miseria, tutte le colpe? Nonna guardami, ti accompagno io in bagno, ti aiuto io perché sei tornata ad essere una ragazzina e poi una bambina, perché ti sei voluta fermare lì, finalmente liberare di tutto quello che ti ha angosciata per una vita, la mancanza dell’esperienza dell’amore, un matrimonio che ti sperpera, i figli, la fatica e la fame nera. Nonna vieni, ti aiuto io, perché anch’io sto cominciando ad assecondare la tua follia… Mi sembrava di soffrire in un altro modo, più giusto rispetto a quello di tutti gli altri, che non capivano, ma anche io sbagliavo. Sbagliavo ad avvolgermi dentro le mie emozioni, sempre i miei sentimenti, mi sentivo tradita ed arrabbiata contro quella nonna che non mi riconosceva, spietata. Queste mie emozioni assomigliano in fondo ai sentimenti di incredulità ed autocommiserazione di Pierre, il compagno di Idda, non sempre clementi rispetto a sua madre. La narratrice, e attraverso lei, Michela, invece, lentamente, e istintivamente si muove in un’altra direzione, ed è lì che ci vuole portare.

Donatella Di Pietrantonio nel bellissimo romanzo autobiografico Mia madre è un fiume, ha bisogno di ritrovare i racconti della madre, che mano a mano sta entrando nella zona d’ombra della stessa malattia di Annie, di fissarli nella corrente del tempo, di stringere i pezzi, i percorsi della madre ed i suoi. In un certo modo racconta soprattutto la sua resa alla figura della madre che scivola come un fiume, si sbriciola come la chioma di un albero spoglio che non fa più ombra. È lei che deve in qualche modo abituarsi a non sentirsi più protetta da quell’ombra. Michela cerca invece di sentire Annie, di entrare nel corpo di questa donna e di muoversi discretamente nella sua memoria. Non è facile, non sono piacevoli i sentimenti legati al gesto di frugare tra i residui di sé di un altro. A volte arretra. Poi riprova ad entrare nella sofferenza della suocera, ma senza cercare di forzare un contatto con Annie, o con quello che Annie è stata e non è più. Lo fa prima per curiosità, poi per consolare il compagno Pierre che alterna incredulità e fughe. Ma progressivamente mentre scopre il passato di Annie, attraverso le lettere conservate e la miriade di oggetti rimasti nel suo appartamento, accetta che l’enigma dell’altro resterà comunque un enigma, e che in realtà ciò che ha bisogno di riscoprire è il suo stesso passato. E arretrando, in questa scrittura a ritroso, Alessandra, la voce narrante, ritrova Annie, l’amore premuroso per il figlio che sembra risucchiato dalla malattia, e ritrova se stessa, bambina sulla bicicletta, bambina che assiste alla vita incomprensibile degli adulti, e ritrova il desiderio di tornare a casa, laggiù, in Puglia da dove era scappata. E solo così, ritrovando se stessa riesce a fare da intermediaria tra Annie e i la difficile tristezza del figlio di non essere più riconosciuto, e quindi in qualche modo di non sentirsi più amato.

Marzano cerca di mettersi nella pelle di Annie, della donna anziana smarrita, di percorrere i passi che separano Beauvoir dal letto d’ospedale dove stanno curando la madre. E poi cerca di fermarsi lì dove i ricordi si fermano, in una zona dove in qualche modo misterioso Annie si sente protetta, dove tutti gli accadimenti più o meno traumatici che verranno, le intrusioni non sono ancora accadute. Su una specie di soglia, a partire dalla quale i sentimenti per qualche motivo cominceranno a strozzarsi. Nello spazio rimosso, dove gli “amori molesti” in fondo non ci molestano ancora. Io almeno lo immagino così quel tempo in cui si era rifugiata mia nonna. Dove non è necessario percorrere una strada piuttosto che un’altra, e dunque sbagliare. Eppure con il peso nel sangue di tutte le strade che abbiamo percorso sbagliando. Uno spazio caldo, rassicurante eppure penoso e inestricabile. Smarrirsi e dimenticare un passato assorbito fino all’ultima goccia. Cancellare i nomi, sovrapporre le identità (cosa che facciamo del resto per tutta la vita) eppure continuare a fissarti con quegli occhi, gli stessi occhi. In quello spazio di gesti senza memoria, dove, come dice Marzano, qualcosa comunque resta, l’amore, la parola che non si cancella.

Silvia Acierno

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