Ogni volta che sento parlare di Sonny Liston mi tornano in mente le parole di mio padre: “Ali non avrebbe mai potuto batterlo in un incontro regolare. Liston era troppo forte”. Questa frase l’ho sentita fin da bambino, più o meno ogni volta che appariva Ali in televisione, ma ho scoperto solo molti anni dopo che i due match tra questi grandi pugili erano passati alla storia come esempio di incontri truccati. Questo libro, però, non è la cronaca di quegli incontri e neanche soltanto la storia di Sonny. È il racconto di un’America pervasa di razzismo, tanto da non lasciarne immuni neanche gli spiriti più liberali e illuminati. Liston è troppo negro, troppo violento, troppo alcolizzato, troppo simile agli stereotipi e alla propaganda del KKK per poter essere accettato non solo dai bianchi, ma anche dai neri che aspirano a sedersi alla loro tavola. È impresentabile, tutti lo odiano e lui odia tutti (anche se in un suo modo quasi impersonale, come qualcosa di inevitabile). Non ci può stare in cima al mondo e allora deve essere buttato giù. Sembra così naturale, scontato, che non si oppone neanche. Tanto vale, però, ricavarci qualcosa. L’unico, probabilmente, che non ne sa nulla è Ali, troppo concentrato su se stesso per accorgersene, troppo fiero per accettarlo.

Tutto sommato, però, non ha molta importanza: scrive De Silva “non c’è dubbio che Ali sarebbe diventato comunque campione del mondo…più prima che poi, lo avrebbe battuto senza tutte queste tarantelle”.

Che Il pugilatore (titolo bellissimo) non sia una classica biografia lo possiamo intuire già dal sottotitolo (Viaggio intorno a Sonny Liston).  A rimarcare questo desiderio di girare intorno (e un po’ in tondo) l’autore dichiara sin dal principio di essere un flaneur, uno a cui piace fare, per l’appunto, il giro lungo (espressione che ricorre frequentemente nelle pagine del libro). Liston, dunque, è sì il centro della storia, il suo fulcro, però è il centro di un cerchio con una circonferenza molto ampia, che abbraccia al suo interno una pletora di personaggi, famosi e non, appartenenti non solo al mondo del pugilato, ma anche al cinema, alla musica, alla letteratura (grandi passioni dell’autore) e poi alla mafia, alla politica, o a tutte due assieme.

In mezzo a tutti questi personaggi si staglia la mole imponente e terrificante di Sonny Liston, il cui ritratto restituisce una figura che nei caratteri essenziali non si discosta eccessivamente da quella entrata nell’immaginario collettivo, ma presenta delle peculiarità, rilevate dall’occhio attento, disincantato e scevro da pregiudizi di alcuni osservatori privilegiati, primi fra tutti James Baldwin e Norman Mailer. Conosciamo, così, un Liston feroce e inesorabile sul ring (o anche fuori, se ci si mette sulla sua strada), ma non cattivo, duro, però intenerito dai bambini, generoso a suo modo, incapace di un progetto che vada al di là di un orizzonte temporale brevissimo, abituato a consumare tutto subito (gli incontri, i soldi, l’alcol, il sesso). Analfabeta, eppure molto più intelligente di quanto si possa immaginare. Un pugile senza paura, ma terrorizzato dagli aghi (e dai pazzi, che poi sarebbero tutti quelli che non riesce a capire).

De Silva scrive in maniera molto diretta, senza fronzoli, intrecciando aneddoti, opinioni personali, ritratti affascinanti, testimonianze d’eccezione, dichiarazioni d’odio o d’amore, in un racconto che per quanto possa apparire dispersivo, a volte disorientante, mantiene una sua coerenza e porta anche il lettore a fare il giro lungo, in maniera così naturale da fargli pensare quasi che non ci sia un’altra strada. Perché, in fondo, la ragione del viaggio è viaggiare.

Netti e privi di sfumature sono i giudizi con cui introduce i vari personaggi: giudizi che lasciano poco spazio a repliche, sempre espressi sulla base di una concezione morale molto personale, di un senso della giustizia (e dell’ingiustizia) tanto radicato quanto poco omologato, e, spesso, politicamente scorretto.

È un libro che procede per contrapposizioni: geni e mezze tacche, bianchi e neri, Beatles e Stones, Ali e Liston.

Nel racconto c’è tutta l’America degli anni ’60 (e anche tanta Italia) con la sua grandezza e le sue contraddizioni. Un’America affascinante e violenta, che predica l’amore e pratica la segregazione: sono gli anni dei figli dei fiori, ma anche di Martin Luther King e Malcolm X. Un’America profondamente divisa: tra bianchi e neri, sicuramente, ma forse ancora di più tra ricchi e poveri. E Liston, oltre a essere negro, è, soprattutto, povero: è il grande orso cattivo e l’America non è pronta per uno come lui e non lo sarà mai.

Fabio Sarno