Parlaci di te

È la cosa che mi riesce meno fare, ovvero parlare in prima persona per raccontarmi. È un approccio che ho da quando lavoro perché preferisco stare dietro le quinte, curare i dettagli, apparire solo quando necessario. Capisco che in tempi di sovraesposizione potrò apparire desueto, ma preferisco comunicare col lavoro del gruppo di cui mi onoro di far parte. La Sicilia è nel mio cuore sottopelle, ci sono nato per caso da genitori siciliani che ai primi anni ’60 già vivevano a Roma; per loro scelta nel momento cruciale della loro vita hanno deciso con consapevolezza di far crescere me, mia sorella e mio fratello in una dimensione metropolitana e per questo non li ringrazierò mai abbastanza. Ci siamo formati in un contesto con la consapevolezza di essere numeri – originari i miei da una provincia lontana da tutto – e questo dato apparentemente insignificante, ci ha consegnato il giusto metro di valutazione su molte cose. Oggi dirigo un Festival di saggistica a Marsala_38° parallelo, tra libri e cantine. Il percorso per arrivare a pensarlo di fatto è il viaggio di una vita professionale, tra incontri studio e tanto lavoro.

Da quanto tempo lavori nel mondo degli eventi culturali? Come ci sei arrivato?

Da quasi trent’anni. Ho iniziato da dietro le quinte come è giusto che sia, facendo di tutto, osservando e studiando molto. La mia vita è stata la fotografia, una prospettiva diversa del raccontare: ho curato libri e mostre per istituzioni pubbliche e gli incontri sono stati fondamentali nel mio percorso. La fotografia è un vettore di narrazione speciale: racconta in sottrazione e per me che amo il jazz, l’adagio “less is more”, in qualche modo è un vestito cucito ad hoc. Quando ho iniziato a conoscere alcuni fotografi (con loro spessissimo si parlava di altro, di cose che andavano oltre la fotografia) mi rendevo conto che racchiuso in uno scatto c’erano le loro letture, le loro passioni musicali, il piacere dell’architettura. E allora Enzo Sellerio, Don McCullin, René Burri, Ferdinando Scianna, Paolo Pellegrin, Francesco Zizola e altri. Maestri assoluti, con mondi dentro, dove la profondità di pensiero era dettata da una ricerca costante e continua che spaziava in vari campi del sapere, e io registravo assecondando la mia curiosità.

Poi, in un momento di stanchezza personale e professionale, ho fermato tutto e sono sceso dalla giostra del mio mondo, e come spesso faccio mi sono guardato intorno. Galeotta fu una mezza cartella che scrissi di notte ad un mio amico di sempre Salvatore Adamo, sull’idea di costruire una rassegna per parlasse ad un pubblico vasto su temi dati. Che affrontasse la realtà nelle sue pieghe, dal generale al particolare, che col tempo e fuori dalla punta dell’iceberg dei pochi giorni di un Festival, potesse poi insistere sul territorio con azioni precise di crescita dal basso, tutto ciò a Marsala, città originaria dei miei. Mi bruciò con un lapidario “facciamolo”, non senza sorpresa da parte mia e lì fu una corsa straordinaria a costruire 38° Parallelo.

La mia agenda di una vita di lavoro aveva ancora i contatti di un mondo di ragazzi quali eravamo un quarto di secolo prima, così raccontai ad alcuni di loro l’idea (per un confronto) e mi spinsero a realizzare a questa cosa. Da lì ha preso forma questo contenitore che a settembre prossimo arriverà alla quinta edizione.

Un Festival porta con sé un’etica nella mia visione, ovvero il senso della restituzione sul territorio di un sapere, una conoscenza, che non possono né deve restare appannaggio di pochi, e il sistema scuola è il porto naturale dove noi organizzatori per primi apprendiamo e poi con i ragazzi costruiamo percorsi condivisi. Incontrare dal vivo un’autrice/autore non è più sufficiente a mio avviso – quello zoccolo duro di lettori forti c’è -, dobbiamo invertire un ragionamento che è duro a morire: non parlare più di “consumi culturali” ma di “partecipazione” che puoi ottenere lavorando dalla base e seminando. Solo così un Festival può contribuire alla formazione di una Comunità educante. La strada non è piana, ma il sapore di un risultato ottenuto quando arriva è dolcissimo.

Quanto è stata importante la tua formazione per quello che fai oggi?

Il liceo classico mi aprì un mondo fatto di studio serio e di conoscenza: entrai al ginnasio nel 1979, tempi cupi. Aldo Moro e la sua scorta uccisi l’anno prima, a Roma l’atmosfera era terribile; solo chi ha vissuto quel tempo – magari anche in altre realtà metropolitane – può capirlo veramente, la scuola era un porto sicuro. La dialettica politica ovviamente era quotidiana e lo scontro generazionale dentro quelle mura altissimo ma sempre nel rispetto dei ruoli: eravamo ragazzi, molti permeati dall’aria che si viveva, ma ci confrontavamo con una classe di professori di spessore immenso che ci hanno indicato una via. Alcuni di questi sono stati veri Maestri di sapere e tra la filosofia, la matematica, il greco e le sue origini ci hanno instillato la capacità critica di approccio alla vita. L’università è proseguita con una scelta per studi giuridici, ma l’amore non fu mai davvero corrisposto. L’approccio al mondo del lavoro ha invece rispettato le mie passioni; ho assecondato la curiosità, le pieghe di ciò che mi interessava e questo è stato possibile grazie a due genitori illuminati che hanno consegnato fin da piccoli, a me e ai miei fratelli, la libertà di scegliere. Un lusso vero, ne sono consapevole oggi.

I libri che ruolo hanno nella tua vita?

Ruolo passionale, direi e come nelle migliori relazioni, fatto di estremi tra amore puro e quasi odio (è un sostantivo che utilizzo di rado). Passato il momento della formazione, iniziare a leggere assecondando colori, profumi e tanto altro che quelle righe mi trasmettevano; la letteratura americana del ‘900, Italo Calvino, Ennio Flaiano con l’ironia immensa che poi traduceva nei non copioni di Federico Fellini, Gadda e i suoi racconti che sono affreschi di parole. E poi il Sud America: Garcia Márquez, Jorge Amado, Borges. Un grazie ad un italiano atipico ovvero Antonio Tabucchi (che conobbi durante la mia lunga frequentazione in casa Sellerio) e con lui arrivai alla letteratura lusitana. Sono un lettore onnivoro, disordinato e cerco di restare contemporaneo: adoro Gipi, Zero Calcare non tutto. Il senso compiuto dei disegni di Mauro Biani a commento di un fatto di cronaca (è una fotografia scritta in punta di matita…). La saggistica di cui mi nutro da un po’, ossia il tempo che cerchiamo di fermare al 38°, è quella analisi per certi argomenti che richiede una scansione data, oggi che tutto scorre in modo inutilmente veloce.

C’è un aspetto curioso di quanto viviamo: la musica è stata dematerializzata dai suoi supporti fisici da tempo, e il suo consumo è coerente (basta vedere i ragazzi oggi, per certi versi invidio questa capacità di saltare da un brano all’altro con una velocità insostenibile per me); il libro in qualunque forma lo si declini cartaceo e-book richiede sempre un tempo dato, che è lo scorrere delle pagine e quella richiesta di uno stop obbligatorio sta alla base di una conoscenza, di un approfondimento indispensabile oggi più che mai.

In che modo sono stati importanti per il lavoro che fai?

Il sapere per loro tramite mi ha reso libero. Un libro non cambia il mondo, ma te lo mostra da una angolatura diversa; quella libertà a cui accennavo è il perno su cui poggia la scelta di fare o non fare determinate cose. Il COVID ha reso “beni essenziali” le librerie, e questo non avviene per caso. Al pari delle farmacie, dei trasporti, la cura dell’anima di un individuo passa anche per questi oggetti quasi reazionari. E poi in tema di sostenibilità, l’atto del leggere lo è in sé: viaggi con la fantasia da fermo. Rendi ricco chi ti sta accanto, restituendo quanto quelle pagine ti hanno donato; c’è stato un tempo in cui ho vissuto foderando letteralmente le mie stanze di libri riviste giornali, questo ha contribuito a sentirmi vivo e partecipe di un quotidiano sempre più complesso. Direi che sono e restano fondamentali, anche fuori da un contesto di lavoro: sono evasione.

C’è un libro in particolare che ha avuto un ruolo decisivo in quello che sei oggi?

No e provo a spiegare: i libri sono la somma di stagioni della vita, e da lettore disordinato ciò che mi ha reso tale in un tempo passato magari oggi non risponde più pienamente alla persona che sono. Potrei dirti uno degli ultimi letti, L’ordine del tempo di Carlo Rovelli, ne sono rimasto affascinato: rendere semplice una materia complessa come la fisica non è da tutti.

Restituire in poche pagine il senso del tempo, tra passato e futuro, per tramite di pensatori enormi quali Newton, Einstein mi fatto letteralmente viaggiare e in questo dono unico sta la potenza di questo oggetto.

Intervista a cura di Angela Vecchione