Take time to look

Georgia O’Keeffe

A volte sono le parole che hanno la virtù di calmare le cose. Già solo nominarle e, nominandole, ordinare i nostri sentimenti e le nostre impressioni, le sottraggono al caos. Appena gli ritirano via quella sostanza caotica di cui sono fatti i giorni. Altre volte le parole sono sgualcite proprio come le cose. Deborah Levy (scrittrice di teatro, autrice di romanzi come Swimming home, e Hot milk, e di un memoir in tre volumi, Things I don’t want to know, The cost of living e Real estate) è partita per Parigi per nove mesi, per una fellowship. Ha lasciato la sua casa londinese assieme alla sua seconda figlia, che ha preso un altro treno, in un’altra direzione per iniziare la sua vita da adulta. È un momento di bilanci, confusione e decisioni. Lei sta per compiere sessant’anni. E nella metropolitana di una Parigi di cui quasi non conosce la lingua, compra un mazzo di fiori che raccoglie alla meglio in una cartina, stropicciato e indeciso proprio come i suoi sentimenti e le sue parole.

Altre volte invece sono le cose a calmare le parole. Le pietre, delle grosse losanghe di arenaria, che Ester Armanino, autrice di Contare le sedie, racconta di posare assieme al padre davanti alla loro cascina, permettono alle parole di stendersi anche loro sulla pagina, in una composizione “incerta”, nello spazio di una pausa. In un momento di fatica e di intesa, quella muta, che non ha bisogno di parole. In momenti come questo, le parole si trattengono, si arrotondano, restano raccolte nei gesti, nelle cose e in quello che con le cose si decide di fare oppure no. E assieme alle cose si fanno anch’esse cave, diventano appunto quello che in fondo sono: involucri.

Queste sono le parole che Armanino dice di amare di più. Sono quelle che ritornano nelle sue narrazioni: ciotola, uovo, orca, per citarne alcune. Hanno un buco in mezzo, ingoiano le cose e i pensieri, si formano nel silenzio, si nutrono di silenzio e come racconta l’autrice, “si rigenerano”, lì in quel posto accogliente. E noi con loro.

Nel volume autobiografico Real estate di Deborah Levy e nel romanzo Contare le sedie di Armanino ci sono case che si costruiscono, rifugi in affitto che restano immutati nel fondo del giardino di un’amica, case nuove mezzo vuote, come l’appartamento parigino a Montmartre in cui Deborah Levy si è appena trasferita (“you have a flat full of things in London, why not have a flat full of nothing in Paris?”). Poi, nelle credenze delle case, ci sono gli oggetti che, come le case, si conservano o si rompono, si lasciano o si portano con sé. Nel romanzo di Armanino sono teiere e anche tazze che vanno in frantumi non perché sono sfuggite di mano ma apposta, sotto i colpi di un martello per essere ricostruite secondo l’arte del kinstugi, che ricompone le ciotole per sanare i dolori. Nel romanzo autobiografico di Levy, autrice di origine sudafricana, sono le maschere africane appese al muro dell’appartamento spoglio di Montmartre, assieme alle poche cose di cui fa l’inventario. E sedie, tante quelle di Armanino e quelle quattro sedie che Levy acquista per decenza, per far sedere gli invitati.

Real estate è la proprietà che Deborah Levy sogna prima o poi di possedere. Una proprietà che va abbellendo capricciosamente seguendo la fantasia del momento. Una barchetta lì, un fiumiciattolo che attraversa il giardino là, il melograno, qui, proprio accanto alla casa, per proiettare le sue ombre e luci dentro, su un letto con lenzuola di seta. Un sogno nascosto, quasi inconfessabile, anche se lei lo confessa senza troppi scrupoli, come solo alcuni scrittori sono capaci di fare, mettendosi in gioco anche se si rischia che tutto sembri grottesco. È quel sogno a cui paragoni sempre la tua vita, per concludere che la vita, quella nell’appartamento di un edificio trasandato a nord di Londra, con un banano in un vaso, le sculture equestri sul davanzale, e tutto quello che le figlie hanno lasciato ora che sono entrambe andate via, vale molto di più di quel sogno patinato.

In realtà la proprietà tanto sognata è tutto ciò che Levy non vuole. Ovvero tutta quella femminilità scomoda che è oggetto della sua trilogia che è anche un saggio di teoria femminista. Le sue case, quelle vere, quelle reali, sono tutte contenute nel suo flat di Londra. “There were at least three other homes inside my London home”. La proprietà (“real” estate) è quanto di più “irreale” “unreal” possa esserci. Nel suo vagabondaggio intellettuale che sono le pagine di questa autobiografia, e fisico- nel romanzo la scrittrice si muove tra Londra, India, New York, Berlino e Parigi-, nel suo vagabondare per le strade di Londra, Levy torna in quel capanno nel giardino di una amica, che intanto è invecchiata ed è rimasta vedova, dove in qualche modo, dopo il divorzio, Levy è diventata una scrittrice. Tutto è rimasto com’era, preservato da quel manto di polvere a volte così necessario. Di nuovo come una conchiglia, una botte, un posto cavo.

Una casa è la possibilità di sperimentare modi alternativi di tenerla (householding), nel caso di Deborah Levy, quello di una madre divorziata, che tira su le figlie e scrive nel capanno dell’amica. Vuol dire provare a creare un nuovo ordine, una nuova società. Una casa può diventare uno spazio dove essere se stessi. Il luogo riparato dove aver cura di noi, della nostre parole per dare tempo alle cose di dirsi. Il luogo della maternità e della fatica. Un recinto o una striscia di correnti, di passaggio del piacere e del dolore. C-A-S-A o CA SA, quella che cresce o diminuisce assieme al cuore.

Ma soprattutto una casa ha a che vedere con la felicità, è una fotografia- a volte molto menzognera- della felicità di chi la abita. Armanino e Levy ci parlano di una felicità un po’ diversa però. Quella che si sperimenta anzitutto in solitudine, quella che non dipende dagli altri, ma solo da te. Quella che l’altro, lui, anche se ti ama, non vede perché è troppo occupato con la sua di felicità. “Forse lo sa, sa che la mia casa ha a che fare con la mia felicità e che nemmeno lui c’entra”, scrive Armanino. Anche la proprietà in cui Deborah Levy fantastica di ritirarsi, è una casa con le stanze vuote , in una vita a metà ma pienamente dimezzata.

Per entrambe la casa è un rifugio, shed, nest, nel senso in cui lo fu la casa di Georgia O’Keeffe, la pittrice americana che a un certo punto lasciò il marito, il fotografo Stieglitz, e si ritirò nel cuore del Messico arcaico. In occasione di un viaggio aveva scoperto le rovine di una abitazione messicana tipica, che si snodava attorno ad un cortile centrale, se ne era innamorata, l’aveva acquistata e rimessa su assieme all’amica Maria Chabot. La casa nel villaggio di Abiquiú: una casa con tutte le sfumature della terra, dal rosso al senape, dove visse per quasi quarant’anni fino alla morte. Una casa dove gli oggetti, ogni pietra, ogni ciotola sono un gesto pittorico. Un passo che conduce ad un altro passo, come i pioli di una scala, la stessa, come scriveva lei, i cui gradini ci conducono dentro una casa.

Non sono solo le pietre, le ciotole, e gli oggetti da contare di Armanino che mi portano, sasso dopo sasso, fino a lei, alla pittrice, a quel suo spazio radicale quasi fuori dal tempo. Ma anche questo suo essere scrittrice e architetto, questa idea di arte di Armanino dove la scrittura è un elemento dell’architettura e l’architettura un elemento della scrittura. Anche gli scorci di quella costruzione in adobe di cui O’Keeffe fece la sua casa, sono già vere e proprie tele naturali prima di diventare opere d’arte: l’ossessione per quel patio con quel lungo muro, compatto e cavo (nella serie di tele intitolate “patio”).

Deborah Levy inizia il suo Real Estate proprio da lei, da Georgia O’Keeffe. Dalle parole che O’Keeffe scrisse sui fiori che dipingeva. “Still -in a way- nobody sees a flower -really- it is so small…”Alfred Stieglitz, l’ha amata, sposata, l’ha tradita, l’ha esposta  per primo nella sua galleria,  l’unica donna alla Gallery 291, l’ha fotografata (o meglio lei si è fatta fotografare con quel suo corpo statuario ma soprattutto con il suo sguardo che guarda fisso l’obiettivo e lo supera, come se non ci fosse) e l’ha portata verso il successo. Stieglitz ha creato il  mito, paragonando quei fiori troppo grandi alla vagina e dando il via alla sfilza di interpretazioni e fraintendimenti freudiani. Ma a lei, questo paragone, l’erotizzazione della sua arte, le è andata sempre più stretta. Perché dire che “dipingeva fiori”, che quei fiori rappresentavano i genitali femminili, “l’universo femminile”, erano chiari tentativi di sminuirla, di relativizzare il lavoro di quella che i critici chiamavano ancora “this girl”.

Invece le sue parole sui fiori, quelle da cui comincia Deborah Levy, sembrano dire piuttosto che lei cercava solo di allargare gli occhi su tutto quello che altrimenti trascuriamo. Ingrandirlo. “When you take a flower in your hand and really look at it, it’s your world for the moment. I want to give that world to someone else. Most people in the city rush around so, they have no time to look at a flower. I want them to see it whether they want to or not.” Non solo i fiori e prima dei fiori i gusci enormi, ma tutto, tutto il resto, anche la V tra patio e cielo (Patio IX, 1959), o le pieghe di una montagna che digradano come un tessuto morbido, hanno a che vedere con lei, e quindi con il suo corpo e ovviamente con la femminilità e la sessualità. Eppure lei voleva soprattutto amplificare fino all’astrazione quel miracolo o mistero quotidiano, troppo piccolo per attirare davvero lo sguardo: quello che ciascuno di noi vede. “What I see of flowers”. Dove quello che importa non è il fiore ma quell’ “io”, il nostro sguardo intimo.

Mentre vedo Georgia O’Keeffe allontanarsi nella sua passeggiata mattutina, dopo aver bevuto latte o te, con i piedi piantati su quella terra rossa e rovente, prima di mettersi a dipingere, lascio Deborah Levy che sta ascoltando la storia di una amica di una sua amica che ogni giorno invece si bagna in un mar Baltico ghiacciato per rimpicciolire il dolore e gelare il cuore. E ritrovo Armanino muoversi tra pietre e pezzi. Pezzi che non si tengono tra loro. Che per fortuna non hanno l’ambizione di tenersi tra loro. Ogni capitolo di Contare le sedie, è un frammento, un pezzo di un disegno dove il disegno non importa davvero, un racconto che potrebbe già chiudere la storia. Poi ci sono le voci, tante voci, che non bastano mai perché una manca, i versi degli animali, i cocci della ciotola rotta per il corso di arte, le pietre che formano mosaici e composizioni senza legarsi davvero, ognuna liscia  e impenetrabile, e ancora i santini che la narratrice collezionava da bambina. Ogni pezzo sta bene, dice Armarino al suo amico siriano. Non possiamo essere “interi”, l’”interezza” è un inganno. Il collante, quello che nell’arte giapponese del kintsugi impreziosiscono con la polvere d’oro, è la madre, che compare anche lei sporadicamente, trattenuta qui e là, dove solo le persone amate con tutto l’amore possibile possono comparire quando non ci sono più. Il collante è il ricordo di lei, della sua voce che col tempo va ritirandosi dal suo corpo.

Frammenti sono le liste, quelle che le dettava la madre. E i necrologi che la madre scriveva con lei, insegnandole così a sintetizzare le emozioni e i ricordi. Le sedie sono altri pezzi, sono i passi che la separano dalla madre, dalla sua malattia. Anche le emozioni restano allo stato di frammento sconnesso perché lei non permette che salgano su per essere ordinate e ricomposte. “La respingevo giù, verso il centro del mio corpo”. Il bicchiere che la bambina morde e va in frantumi nella bocca. I pezzi di anima. E il ricordo del cane o della madre che si rompe in mille lacrime. Centinaia di scatole di piastrelle, e tanti dolori. C’è un dolore dentro per il cane che non c’è più, per la puledra Nazaré che dopo l’inverno, nel giro di un solo piccolo inverno, non c’è più, per la madre che non c’è più.

Armanino racconta di un piccolo mammifero di orca sospinto dalla madre fino all’insenatura di Genova per tentare disperatamente di salvarlo. Un’altra immagine di rottura. È sempre il legame con la madre che si è spezzato troppo presto, e si spezza ancora e ancora. Di quel legame le forme vuote figurano l’assenza ma anche il ventre, un surrogato di ventre, in cui rifugiarsi. Per Armanino, la madre è in qualche modo ancora fuori, è ancora l’altro che può consolarci, non è ancora la madre che sta dentro di te, sul tuo corpo che col tempo si è arreso all’impossibilità di essere consolato. Come accade invece alla sessantenne Levy. “I could see her likeness in my face, in my expression, and for the first time in my life , this was not a bad thing. It was something I dreaded. The loss of youthful beauty, for example. It was all right. It was okey”. Armanino non si è ancora arresa.

Su tutti questi frammenti (che sono anche i pezzi del romanzo) Armanino appoggia appena le mani come contro un vetro per sentire la pressione e cercare le parole.

Un cuore si riscalda, un altro gela, un altro va in frantumi in un paesaggio che finalmente ha smesso di essere, nella storia di Armanino così come nelle tele di Georgia O’Keeffe, lo stupido sfondo di un romanzo. Il paesaggio ha subito un’ulteriore metamorfosi: da quelle poche righe che sono estensioni dell’anima sufficienti a far avanzare una storia (e che in modi diversi ritrovo in una parte della narrativa contemporanea) fino a lasciare uno spazio vuoto, occupato da altro. Da qualcosa che non è una descrizione ma un’altra “presenza”, quella che Francesca Marciano chiama “animal spirit”, e a cui dà vita nei suoi racconti (Animal Spirit). In qualche modo il paesaggio- lo stesso che va ritirandosi sotto i nostri piedi, sciogliendosi, scolorendosi, svuotandosi, e intossicandosi- è sparito e rinasce come un simbolo potentissimo. Con la potenza di una specie di evocazione.

Per Armanino, è il pesce mola mola, o l’uccello che si materializza all’improvviso sulle geometrie del pavimento di casa. Una presenza animale che ci stupisce, con cui abbiamo perso il contatto. In realtà anche riflesso di un’energia che ci portiamo dentro, soffocata e inquinata prima che, come accade nell’ultimo racconto di Animal Spirit, scomparso il cane, e finita la vacanza, scivoliamo di nuovo in una vita in cui ci sfuggiamo continuamente, facciamo finta di non accorgerci che gli altri ci tengono la mano e se possiamo non apriamo bocca per salvarli.

Gli animali di Armanino (e di Marciano) mi riportano al paesaggio messicano, alle pietre e ai fossili, che collezionava Georgia O’Keeffe. E poi indietro anche ai suoi fiori perché quei fiori colossali e carnosi erano in fondo già una astrazione. Lì dove i sassi, i pezzi, le sedie o la presenza viva di un animale significano semplicemente vedere cose nuove in cose vecchie, vecchissime, osservare quella sottile linea tra permanenza e impermanenza, intravedere nel fiore grande quel fiore piccolo, quella miniatura inaccessibile sotto una campana di vetro. “Attenzione pura” (avrebbe detto Simone Weil) capace di pietrificare il tempo, almeno per poco.

Silvia Acierno

Georgia O’Keeffe, monografia a cura di Camille Vièville, édition Citadelles e Mazenod
Deborah Levy, A living Autobiography, Things I don’t want to know, Real Estate, The cost of Living, Penguin Books
Ester Armanino, Contare le sedie, Einaudi