“Afrodite è una Furia purgata delle sue origini ctonie” (Sexual Personae, C Paglia)
“Gli uomini sono molto difficili da capire. Speriamo che muoiano tutti assiderati” (Il cornetto acustico, L Carrington)
La Furia del romanzo di Alessandra Carnaroli è come una maschera apotropaica che ci fissa dalla copertina. Sue sorelle sono la Gorgone con l’occhio feroce e famelico, la Sfinge che “strangola”, le Arpie, le ancelle che ghermiscono. Loro, le Furie sono le vendicatrici. Nell’arte arcaica la Gorgone era una testa senza corpo che faceva orrore; la sfinge testa di donna, artigli e dorso leonino; le arpie degli uccelli che insudiciavano gli uomini con i loro escrementi; le furie lo schizzo di sangue, lo spruzzo seminale. Tutte varianti e sorelle della Grande Madre, tutte allucinazioni e ansie sessiste di un mondo primordiale traboccante di arcano (così lontano e così vicino). Carnaroli ci dice che la gorgone è stata mangiata, la sfinge strangolata, la furia è rimasta vittima, questa volta non si è vendicata. “Che se un giorno lo incontro gliele faccio pagare tutte le cose brutte che ci ha fatto passare… giuro che gli suono il citofono e glielo dico che ho sbagliato citofono”.
Carnaroli ha appeso la maschera sulla sua fucina come millenni fa si appendeva sul forno, per scacciare i malocchi, per scongiurare il pericolo e tenere lontani gli spiriti maligni. Ma quelli sono arrivati lo stesso. Tutti tutti gli archetipi creati dall’uomo per dominare la paura, il mistero, quella natura terribile, e assieme ad essa, la donna. Carnaroli ci vuole mostrare il volto notturno della natura umana, ma ribaltando la prospettiva: non è l’uomo che attraverso i simboli e le azioni svelle i denti della vagina (la Gorgone come ci insegna Paglia era una specie di vagina dentata) plasmandola e rendendola donna; ma è la donna, che è sempre stata solo una donna, all’inizio tutta femmineità ed ora tutta femminilità, che mostra i denti divelti e l’atto barbarico, quotidiano, invisibile di chi non ha mai smesso di compierlo: di mangiare per paura di essere mangiato.
C’è una letteratura abbastanza consolidata che racconta di come le artiste si siano riappropriate degli spazi inferiori in cui come donne sono state rilegate, pozzi, stanze, corridoi, veli, fondamentalmente. Di como siano riuscite a ribaltare la prospettiva e a fare di quegli spazi dei nuovi regni di autoaffermazione, spazi ermeneutici di segreti e trasformazioni (The sanctuary of Furies di Leonora Carrington). Per le pittrici surrealiste (ho Carrington che mi alita ancora sulle spalle) le poltrone indossano scarpini, le sedie hanno code; la scultrice Louise Bourgeois si mette addirittura la casa al posto della testa, nient’altro da aggiungere. Con questo lessico femminile le artiste fanno di questi luoghi-prigione il santuario di una rinascita, di una nuova alchimia: un processo creativo che ha fatto il suo lutto e finalmente si mostra. Carnaroli, invece, fa un passo indietro e due in avanti: ci sta dicendo che quel luogo, quella stanza tutta per sé (per le altre) è sempre una cucina un po’ squallida di un appartamento di periferia. Certo, tra le donne felici, realizzate, e quelle in cui tutto è frutto di una qualche violenza, di bambini infilati tra le gambe, di botte, ci sono le donne normali che mettono al mondo bambini perché lo desiderano, donne che amano e sono amate. Carnaroli in questo potrebbe sembrare eccessiva, perché le storie brutte e tristi ci sono ma non sono tutte le altre. Ma lei ci vuole portare altrove: lì dove oltre alla ripetitività, dietro a tutte queste donne che portano la loro caverna dentro di sé, che finiscono mezze bruciate in un’intercapedine tra due box, c’è comunque un’Afrodite che sa “far baciare le parole”, che ha le dita tutte storte perché l’acqua l’ha toccata sempre.
La prosa della scrittrice trasporta come detriti tutte quelle esperienze di cui sappiamo poco e non vogliamo sapere niente. Le fa uscire da quelle cucine e appartamenti con molto sarcasmo. Anche il suo materiale narrativo esce dai pozzi e dai cunicoli, anche lei va a rimestare lì le sue storie. Tra pance che vorrebbero riaprirsi, che vorrebbero ingoiare quello che hanno partorito; lì dove i nostri organi sessuali sono quella cosa là sotto, dove non si tocca, dov’è come l’acqua alta; dove la maternità è una vibrazione delle ossa, un sasso che schiaccia; dove scappano pensieri terribili, era meglio che morivi nel sonno, dove i colpi ti dividono la pancia in due parti uguali… ma per portarle fuori da quel limbo dove purghiamo ancora la nostra origine ctonia.
Carol Rama è una delle tante pittrici ancora poco conosciute, per la solita ragione: il panorama artistico era dominato e saturato da pittori, forse più bravi, forse meno bravi, ma destinati ad entrare nel canone per diritto di nascita. Rama si è formata nella scuola di Casorati ed ha dipinto fino alla fine, novantasette anni. Nella serie Appassionata, lo sguardo cade inevitabilmente sugli oggetti che sono senza pudore, magnetici. E l’intero dipinto diventa impudico e magnetico. Rama amava le scarpe, erano già rosse, le protesi, i piedi di legno (lo zio aveva un laboratorio ortopedico).
Oggetti contundenti, feticci, talismani, doni diabolici, eretici. Gli oggetti sono simboli ma anche le parole diventano simboli. Quelle di Carnaroli sono esse stesse contundenti.
A proposito di oggetti appuntiti e contundenti, Louise Bourgeois ha disegnato (sempre in rosso) cesoie, pinze, cordoni come forbici, esseri abitati da coltelli (La Reparation, Untitled 1986)). Sono le forbici che impugnava da bambina nell’atelier di tappezzeria di famiglia; lei aveva il compito di ritagliare i genitali dei puttini da quei tappeti perché altrimenti le ricche signore si sarebbero scandalizzate e non li avrebbero comprati. Bourgeois raccoglieva tutti quei ritagli in un cofanetto. Poi ha continuato a raccoglierli nei suoi lavori. «Vous arrachez, vous taillez… ce sont des gestes agressifs… puis il faut polir et huiler… Ce travail de sculpture vacille entre une agression extrême et un besoin de réparation pour se faire pardonner…», diceva. Le donne di Carnaroli incoscientemente si muovono tra questi due poli, aggressione e riparazione; Carnaroli però non vuole riparare proprio niente. Ci sta dicendo che è finito il tempo di riparare, di affogare la rabbia: tutto deve cambiare.
Questo suo racconto ininterrotto potrebbe essere una pagina di cronaca nera riscritta in un ibrido tra prosa e verso, una trascrizione delle pagine più buie della nostra quotidianità; il racconto e l’interpretazione di quell’ombra oscura che accompagna sempre la figura chiara nel labirinto della psiche (In the Labirinth di Carrington). Se fosse solo questo, il romanzo avrebbe già assolto la sua funzione, sarebbe già morto e comunque resuscitato. Lo scrittore Paolo Di Paolo in un pezzo sul lavoro che Martin Amis consegna alla posterità (pubblicato sulla rivista online Lucy sulla cultura), allineandosi con il pensiero dello scrittore inglese, con ironia allude alla morte del romanzo. Amis gli avrebbe fatto addirittura il funerale. Ad essere sepolto sotto la valanga dei romanzi che leggiamo – i romanzi “accelerati”, quelli troppo facili da leggere, che non richiedono nessuno sforzo al lettore-, giace il romanzo sperimentale, complesso, quello che hanno smesso di scrivere e che noi abbiamo smesso di leggere (il romanzo appunto di Amis). Questo romanzo di Carnaroli sperimenta con lo stile e la lingua ma rimane attaccato alla terra, non perde forza di gravità come tanta metaletteratura. E per non perdere il passo accelera, deve accelerare. Non è facile da leggere non perché il lettore è un ignorante che non ha voglia di seguire le architetture e i rinvii complessi messi in scena dallo scrittore, ma perché queste storie (che fanno tutt’uno con il modo inedito di raccontarle) ci riguardano così da vicino che siamo riluttanti a sentirle, noi che ci trastulliamo con l’idea che il bene vince sempre sul male. Il romanzo di Carnaroli (senza bisogno di gerarchie tra romanzi di seria a e di serie b, o del racconto biblico di una letteratura morta o quasi, resuscitata o quasi) è vivo e possiede un’altra virtù essenziale alla letteratura. Questo romanzo, che quasi si svolge in contemporaneità con gli eventi di cronaca, è realtà aumentata, così dilatata da straripare i confini del presente ed occupare il futuro; annunciarlo come un oracolo, come una profezia. “io complice del mostro, io complice del freddo, del tentato omicidio, del furto, la mia mano grande allarga e sventra come si fa con le quaglie, ricordi? Te l’ho insegnato bene, quindi qualcosa hai imparato si tolgono le interiora per conservarle meglio, si congelano per pasqua”.
Non ci sono maiuscole. Dopo ogni punto una lettera minuscola. È una dichiarazione, un manifesto sulla radice poetica e avanguardistico di questa storia. Bernardine Evaristo (Girl, Women Other) fa lo stesso, abolisce i punti; le linee fanno da separazione. Questa scelta serve a calcare che le storie passate e presenti si intersecano, come se fosse un’unica donna, in fondo è sempre miranda, perché quello che mi stai raccontando è successo anche a me; perché quando cominciamo a parlare ad un’amica tra quelle mura di quella cucina squallida di un appartamento di periferia siamo come un fiume che non si arresta…
Lacan distingue tra l’Altro con la maiuscola (le grand Autre, the big Other) e l’altro con la minuscola (le petit autre). L’Altro rappresenta l’ordine simbolico: le convenzioni sociali, le leggi, che fanno un nodo, un tutt’uno col linguaggio. È l’alterità quella maiuscola che ci sovrasta, radicalmente estranea. Il piccolo altro è dentro di noi, è solo un riflesso di noi stessi, è un filamento del nostro immaginario; un atto d’immaginazione.
Carnaroli con la sua scelta stilistica vuole andare nella direzione opposta, tornare indietro, scavare nei pensieri che brulicano nella testa e restano muti, morti. Lì in quel posto dove “le grand Autre” non compiono i suoi virtuosismi, le etichette sono un teatrino, assieme ai simboli e alla grammatica. Dove l’Altro è ridotto all’osso, è uno scheletro, nudo, lo vediamo per quello che è. Senza mediazioni.
Lì nel posto dove non c’è più spazio per l’identificazione con l’Altro. Ma resta solo una particella minuscola di ego, ridotta, ridimensionata, un pulviscolo sparso sui pensili, sul vetro, un po’ sotto il tavolo, un po’ sugli strofinacci, un piccolo ego che ha bisogno di sopravvivere comunque.
Silvia Acierno
E tu cosa ne pensi?