C’è un filo sottile che unisce la solitudine al silenzio, ma una solitudine che si riempie con la poesia, che unisce in coro, esiste e questo il giovane poeta Davide Cuorvo lo sa.

Se scrivere poesie è un modo complicato di vivere e forse l’unico possibile, nella silloge La misura del silenzio Cuorvo lavora in modo preciso sulla leggerezza dell’essere senza contaminare lo spessore della sapienza costruttiva e lessicale.

Questa poetica fortemente lirica si avvale di astrattismi sensoriali ma non si confronta con oggetti quotidiani, molti invece sono gli elementi naturali, del paesaggio. Un modo per percorrere luoghi tangibili ma al contempo magici e trasportare il lettore in una visione poetica dove soggiornare è il vivere nei vicoli, nelle piazze di un paese a contatto con elementi della natura (spesso citato il vento) con l’intensità dei sentimenti propri di una simbiosi possibile  in un contesto noto eppure volutamente sfuggente: «Lì troverei un pendio scosceso, adagiato / nel bianco in mezzo ai pineti / lontano giace l’albero ai cui piedi fui bambino». In questi versi facenti parte del “Il paese discosto”, l’autore ci trasporta nel suo mondo antico e ancora nel “Confine del silenzio” ci dice: «Nessuno lo percepisce -il silenzio- / nessuno scorge la crepa nel muro, / o il vessillo del vento quando /s’accostano le nubi e irradia la pioggia / C’è solo l’insonnia a tramare in agguato. / Per questo mi astengo dal centro del mondo, / sa di amaro quel posto.».

Ma questo sbalzo d’immagini non lascia turbati, anzi asseconda quella percezione umana che il contrasto rafforza.

È delicato questo nostro poeta quando in “Finitudine” («Stridono le mie corde, ora / distese a fatica sul tuo sguardo / Mi scopristi coricato come onda sul cuore») tocca l’espressione malinconica, malinconia che raggiunge i vertici nella poesia “A mio padre” nella sezione “Entracte”, poichè la silloge si divide in tre parti, le altre due denominate”Euritmie” e “Decadenze”.

O quando, come omaggio alla donna la ritrae nelle sue età contrapposte in “Ogni finestra… ogni fontana” della quale lascio al lettore la scoperta tanto è la valenza e la raffinatezza dei versi.

È difficile avvicinarsi senza tatto a queste liriche, leggendo si ha l’impressione di sciuparle, di dissacrarle, per la grande “sofferenza” che si prova priva però di sterili lamenti o stereotipi esistenziali, più che altro si tratta di un viaggio umano in due, lettore e autore, nel quale però si avverte l’ideale presenza di un folto gruppo di spettatori empaticamente coinvolti.

Persino i miei silenzi ascolti?, questa è la domanda che pone nella poesia “Ed è silenzio” e in questo verso si racchiude tutta l’assenza di risposte che se soddisfatte ne guasterebbero la bellezza, anche quella di un amore forse incompiuto.

Tante infatti sono le poesie dedicate al silenzio, così come il titolo della raccolta, che nella parola “misura” ne dà la possibile sfumatura dello stesso e di come lo avvertiamo quando abbiamo la netta sensazione che sia pieno di suoni, ricco di musica immensa, e questo mi ricorda il grande Nobel Tomas Tranströmer.

Lasciamoci contagiare dalla sua scrittura felice, lasciamo che un così giovane autore ci prenda la mano per guidarci attraverso i suoi occhi lì dove si possa confluire in una sorta di un “noi” corale e generazionale, in circostanze spesso cancellate dalla memoria con la sua grande attenzione alla forma e alla sostanza e, come dice Armando Saveriano nella sua postfazione, immaginiamolo così; assorto sulla scrivania con l’inchiostro e pennino, un novello Leopardi con la stessa maturità, ma una prospettiva scissa da arcaiche valutazioni eppure con fondamenti profondi che così tanto mancano ai nostri giorni.

Carla Viganò

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