Chissà quanta gente porta un neo sul lato del cuore. Ce l’aveva anche quel bambino, nella foto tra le cartelline. Non vuol dire niente, lo so. Ma allora perché non riesco a pensare ad altro? E se rileggendo quei fogli avessi la conferma d’essere stato adottato? Altro che risate con gli amici, a chi si racconta una cosa così? Devo trovare quei documenti, devo tornare dove mi sono perso.

Succede tutto in un giorno che cambiò le sorti del mondo.
11 settembre 2001.
Mentre in televisione e negli occhi le Torri Gemelle sono un buco nero di paura e fiamme, Riccardo è solo in casa. Vuole affondare le mani nel terzo cassetto della scrivania, in cerca dei suoi giornaletti porno, sequestrati e forse tenuti là dal padre, “sor Cesare”.
Così, il ragazzo incappa nell’imprevisto che gli stravolge la vita. Tre cartelline gialle, tre, all’apparenza normali, custodiscono gli incartamenti burocratici di un’adozione.

«Ma guarda questo, ma che devi sapere?» ripeté.
«Quello che c’è da sapere…»
«Riccardo, la pianti?»
«Lo voglio sapere! Di chi sono figlio io?» supplicò il ragazzo. È difficile che una domanda del genere incontri risposte altrettanto dirette, a qualsiasi latitudine e a qualsiasi età.

La rampicante, il terzo romanzo di Davide Grittani, edito da LiberAria, si apre e si chiude lì: su Riccardo riverso sull’asfalto, in fin di vita, a seguito di un incidente, la sera del 6 novembre 2016 a Sant’Elpidio.
Il libro: un film che ci schiaffeggia con ricordi, immagini, flashback e verità.
I Graziosi: una famiglia della provincia marchigiana marcata e dilaniata dal non detto.

Cesare, agente di commercio, è un uomo rude, abituato a comprarsi i silenzi di chi gli sta intorno, a dare qualcosa agli altri per ricevere in cambio fedeltà e deferenza. Anche la presenza di Riccardo rientra nella logica dello scambio. Tutto frana quando Riccardo infrange le regole e chiede, pretendendo una risposta. Non ottiene nulla, se non una muta, cocciuta sentenza di esclusione, un esilio dal nucleo familiare in parte mitigato dall’affetto della madre, Giovanna, lei che lo aveva voluto a tutti i costi, temendo, da giovane, di essere infertile.

Non aveva lasciato il paese ma era uscito dalla cinta muraria, fuori dal borgo vecchio in cui era cresciuto lasciando le chiavi nella serratura giorno e notte. Era a andato a vivere in una zona residenziale appena fuori mano, un quartiere chiamato “dei poeti”, giacché la toponomastica aveva concentrato in poche strade classici e contemporanei, e dato che sapeva riconoscerli aveva preso casa all’incrocio tra via Sandro Penna e via Alfonso Gatto. Aveva fittato un appartamento in uno stabile di due piani, con un grande terrazzo e un’edera moribonda ma ancora in vita, una finestra che approfittando dell’ombra e dell’oblio s’era mangiata le finestre del primo e del secondo piano.

La svolta per Riccardo si chiama Edera, “la figlia della scema” secondo le malelingue paesane, dove la scema è la vicina di casa Costanza. Edera, bambina assediata da voci che le parlano da dentro, ferita nella parola, che inconsapevolmente dispensa saggezza, attraversata da segnali di un precoce, incontrollabile genio, viene ospitata con sempre maggior frequenza da Riccardo e da sua moglie Sara, coppia che non riesce ad avere bambini.

Ho letto, da qualche parte, che i bambini ridono almeno trecento volte al giorno, un’estasi che da adulti si riduce fino a venti o trenta; una curva che racconta come, crescendo, la vita vada spegnendosi. E tu? Quante volte hai riso? Chissà che la tua curva non giri al contrario, riportando indietro le lancette del tempo, restituendoti da adulta le risate che t’ha negato da bambina. Edera, dimmi che sarà così.

Ispirato a una storia vera e, probabilmente anche per questo, in tutto il romanzo si avverte in modo netto una continua ricerca di verità e fors’anche di giustizia.
Cos’è una famiglia? Che luogo è, o diventa, se viene vista attraverso gli occhi di un bambino adottato?
Cosa fare quando non è più un nido, ma si trasforma in una grotta che ripara sì dalla pioggia, ma nasconde anche la luce?

Natalia Ceravolo