Secondo la teoria dei costrutti di Kelly, il nostro dare un senso a quello che percepiamo e viviamo dipende dalle nostre rappresentazioni mentali del reale. Ognuno di noi filtra e immagazzina la realtà in relazione al suo vissuto e alle sue aspettative, compie delle scelte e le modula seguendo un principio di organizzazione personale. Ad accomunarci in questa impresa è la natura dicotomica del processo di interiorizzazione dei dati, che procede per categorie opposte e complementari, per cui conosciamo il nero perché lo contrapponiamo al bianco e il sentimento d’amore perché resiste a quello d’odio.

Anche Goethe, nella sua teoria dei colori, rilevò che l’occhio fissando intensamente un colore su sfondo bianco “è costretto per sua natura, in modo tanto inconscio che necessario, a produrne subito un altro opposto che insieme al dato includa la totalità della gamma cromatica”.

È questione di armonia, di equilibrio, di insita e naturale tendenza a risolverci nel nostro contrario per ripristinare una qualche forma di interezza.

Le vite nascoste dei colori cattura come un’istantanea la sfuggente e fiabesca ricerca della complementarità che vede protagonista Mio, una giovane donna dallo sguardo multicolore e dal cuore meticoloso, intenta a portare avanti l’atelier di famiglia specializzato nella creazione di bellissimi shiromuku, kimono nuziali color bianco puro. Lavorare da Pigment a Tokyo, il negozio di colori contenente ben 4500 pigmenti, era qualcosa di già scritto nel destino di Mio. Da bambina amava perdersi nei colori e nei dettagli delle stoffe, disponeva di un vocabolario sorprendente che le permetteva di vedere almeno dieci gradazioni diverse di colore laddove gli altri vedevano un semplice rosso. Suo inseparabile compagno di viaggio un taccuino su cui annotava con precisione ogni nuova sfumatura di colore scoperta, dal nando-iro (il blu ripostiglio nonché colore preferito di Mio), al kuri-iro (o giallo castagna) fino all’urayanagi (o colore del retro delle foglie del salice piangente). Ma Mio era una bambina speciale con un dono inusuale. A causa di una mutazione genetica che aveva colpito una ristretta percentuale di individui di sesso femminile, la sua retina disponeva di un numero superiore di recettori e, rispetto ad una persona normo-dotata, la sua vista era “tetracromatica”, ovvero con uno spettro di percezione elevata al quadrato.

G.H. Breitner, Girl in white kimono, 1894, Amsterdam, Rijksmuseum

Ispirandosi a Kandinsky e alla sua sensazione che “ogni colore vive la sua vita misteriosa”, anche Mio fece della sua esistenza la ricerca minuziosa del colore cucito addosso ad ogni persona che incontrava, nell’ossessivo tentativo di scoprirne sempre di nuovi. “Se glielo avessero posto come problema, si sarebbe identificata con la fame, con il senso di incompleto che le restituiva la vita. Tutto per lei era imparziale e impreciso […] Solo il colore, per Mio, era precisione”. Con il passare del tempo, si rese conto che se fosse stato vero che le persone nascevano con un colore addosso, già presente nel loro DNA, sarebbe stato altrettanto vero che le “esperienze del mondo” erano capaci di modificarne radicalmente le sfumature.

Mio era destinata a cambiare, a ridestarsi dall’illusione di aver scoperto tutto, perché come le diceva sempre sua madre “in fondo è esattamente ciò che non sai di una persona a farti innamorare di lei. Cerca di trovare anche tu qualcuno di cui non sai quasi nulla. Ne rimarrai innamorata tutta la vita”. Persino l’incontro con Aoi era scritto nelle stelle che vegliavano sulla giovane donna. Il suo dono l’avrebbe inevitabilmente condotta al suo opposto, al suo complementare, al suo yin. Aoi, a differenza di Mio, era daltonico, “i suoi occhi parlavano la lingua di una minoranza, di una piccola comunità che percepisce i colori in maniera diversa”, ma come Mio aveva ereditato l’attività di famiglia. Gestiva l’agenzia funebre del padre e nel tempo libero amava occuparsi del suo giardino segreto. Mio rimase da subito affascinata dal giovane uomo e da come in lui si accordassero la morte e la “vita esorbitante” delle piante che coltivava con cura. Eppure, ciò che non la distoglieva dal pensare continuamente ad Aoi era il fallimentare tentativo di mettere a fuoco il suo colore. Lei, che leggeva l’invisibile, che scandagliava le anime variopinte dei passanti, per la prima volta non riusciva a distinguere l’aura profonda e misteriosa che avvolgeva l’uomo.

Una storia d’amore che svela il viscerale bisogno di auto-trascendenza dell’uomo, una storia intrisa di legami e di cicatrici che palesa il suo significato inintelligibile nel momento in cui due colori diversi si fondono, risultando in una sfumatura del tutto nuova. Una sfumatura che tanto ricorda la leggenda del filo rosso e il concetto del Tasogare-doki , ovvero quella parentesi spazio-temporale in cui tutto può accadere, quell’istante crepuscolare in cui il giorno si fonde con la notte. L’unico momento in cui la sintesi magica e ineffabile di due anime complementari diventa accessibile anche all’occhio umano.

Claudia Melcarne

Scena del crepuscolo tratta dal film Your Name di Makoto Shinkai (2016)

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