Il problema dell’autrice di origine italiana celata dietro il nom de plume maschile di Quentin Clewes è tipico di chi si cimenti seriamente con la penna: un amore incondizionato per il linguaggio che è un tutt’uno con l’insoddisfazione dei suoi limiti imprescindibili, chiari solo a una scrittura sorretta da vocazione profonda.
«As for time, that was one thing she had plenty of», «Quanto al tempo, ne aveva in abbondanza»: perfino l’inglese, la lingua con cui l’autrice ha scritto originariamente questi racconti (poi tradotti da Franca Cancogni) non riesce o non vuole arrivare dritto al proprio oggetto. Piuttosto accenna, prende tempo, si dilunga. Crea enormi pause, voragini di silenzio. I soggetti sono incerti, a tratti vengono a mancare, mentre un tempo assoluto si gonfia fino a traboccare sui fatti che invece sono narrati con parsimonia; quasi che solo una misera manciata fra essi avesse peso sufficiente per reggere all’impatto con lo scorrere rapace degli istanti.
Quentin Clewes, e le sue protagoniste con lei, soffrono della patina che il dire continuamente frappone tra la loro voce e la realtà così come si offre ai loro sensi: schietta, confusa, abissale, lampante. E invece c’è sempre un velo che anche le parole più scarne, la sintassi più semplice, non possono esimersi dal confezionare. Raramente la misura è perfetta: di taglio evidentemente eccessivo o troppo aderente, il corpo del mondo e di chi lo abita ne esce sminuito, soffocato nelle pieghe della natura costretta.
Quattro racconti dosatissimi di impeccabile forma, per dire come l’impossibilità del narrare può arrivare a essere un tutt’uno col desiderio insopprimibile di dare voce ai vissuti, che ripercorsi uno dopo l’altro a traverso il disordine della memoria arrivano a comporre la trama di una vita. I primi tre racconti portano un nome esotico (Lapsang Souchong, Salammbô, Erie-Lackawanna) ma di fatto è quello che chiude consegnando il volume al comunissimo titolo di Lei, a lasciar sbocciare l’estraneità più piena, dopo tanto sfiorarla nelle prime tre storie. Perché è proprio la she che parla a mancare in tutto il libro, scritto per amore dei nomi elusivi e in orrore di quelli troppo piani o verbosi, colmi di familiarità e privi di contraddizioni.
La protagonista di Lei trova che i pronomi siano un’angusta prigione dove le persone vengono confinate in due ali diverse a seconda del loro sesso. Sorprendentemente la soluzione che ne abbatte le mura è rappresentata dalla scelta di un pronome neutro, un bell’it asessuato, a scalzare quel she troppo vischioso, che secondo la narratrice è mero contenitore della persona, che non dice nulla della sua inimitabile essenza: «Da allora in poi sarebbe stata it: unica per difetto, impersonale, concreta, meravigliosamente cosa. Ne amava il suono ben definito, scevro da sibili e scivoli. It era schietto. Non aveva bisogno di foglie di fico». Soluzione adeguata e libertà fin troppo perfetta; tant’è che la protagonista, appena raggiunta la cosità tanto agognata si suicida senza dolore, con una naturalezza che gela il sangue di chi legge. Identico o simile destino corteggiano le protagoniste degli altri tre racconti: se non è morte di propria mano (come in Lapsang Souchong e in Lei) è solitudine necessaria e assoluta, come nei due racconti centrali.
«E io stavo lì, immobile come una pietra ma senza forze dentro. Non mi ricordo d’aver sentito tanto e tanto nel profondo in tutta la mia vita. Così triste. Così felice. Così vicino a lei da star male. Avrei voluto che continuasse per sempre. Avrei voluto morire prima che finisse. Ma finì e io non sono morto.»
Tutte e quattro le donne di Lei sono troppo leggere, silenziose fino all’afasia, non si sa da dove vengano, non devono mai andare da nessuna parte. Unica provenienza e destinazione – il mistero. Si rapportano con lo sguardo, un sorriso accennato, a tratti un lievissimo rossore adolescenziale. Ma pur così immobili, arrese, possono fermarsi, perché sono sempre di passaggio. Per questo di aspetto e andatura sono così insostanziali. Tanto che per descriverle bisogna invocare i fiori, la pioggia, le sfumature più tenui che talvolta restano fuori dallo spettro dei colori. In Lapsang Souchong, nel cercare di definire l’incantesimo che avvolge una donna da poco approdata su un’isola il narratore si inceppa continuamente in un nebbioso sort of (una specie di, un non saprei); ovvero tenta di disincagliarsi da un tentennamento obbligato, ma con scarsi risultati. Perché di quella donna appartata e straniera ama fin da subito l’assenza ossessiva.
È bello che la traduzione italiana cada in un piccolo tradimento involontario dietro la suggestione emotiva di questo tema: il verbo che ricorre molte volte nel racconto dell’uomo è «I missed her». («it was my fault I had missed her», e poi, più oltre, «I was afraid of missing her») che la Cancogni traduce con «la mancai» («colpa mia se l’avevo mancata», e «ebbi paura di mancarla»). Scelta linguisticamente corretta, perché «to miss» ha anche questo significato, ma è facile che il lettore italiano avverta una senso di lieve disagio. Certo il verbo passerebbe più inosservato nel senso di «me la lasciai sfuggire». Sarebbe più chiaro che chi parla si riferisce proprio a quella donna. Invece così pare che il pensiero dell’uomo sia mirato alla propria solitudine, quasi fosse il bersaglio, lo scopo nascosto dietro il suo sguardo interamente posseduto dalla sconosciuta.
È proprio il sentore di essere un’ombra, riflesso di un altro amaro, a rendere così atipici i legami sentimentali che, per nulla viscosi ma a loro modo intensissimi, stringono le coppie presenti in questa raccolta. Lo suggerisce la donna dell’ultimo racconto mentre riflette tra sé e sé sulla propria scrittura, e si sofferma sul movimento che inevitabilmente si mette in atto quando si agisce con la penna; è un senso di identificazione, o perlomeno «quella sorta di complicità inevitabile quando si condivide lo stesso Io». Un tale riconoscimento può anche accendersi tra due, e in tal caso la fusione è immediata, e non c’è separazione che tenga, e nessun altro legame che regga al confronto. La comunione dell’io, lo stare contemporaneamente dentro un’identica solitudine, dilata la percezione di sé fino alla perdita dei propri confini, ed è solo allora che si spalancano le valve dell’esistenza.
In Lapsang Souchong, una volta che la misteriosa straniera si toglie la vita, è l’uomo a sentirsi pulsare nelle vene il pronome con cui la vita si lascia vivere e raccontare. L’italiano, che lo dà per scontato, non ritiene necessario esprimerlo: «Mi riporta alla sera quando prendemmo il tè insieme e lei mi disse che siamo sempre soli. E non mi sento più tanto solo». Mentre l’inglese, entusiasta, quasi vi pone l’accento: «lt brings me back to that evening when we had tea together and she told me we are always alone. And I don’t feel alone any more». È qui che la prigione del she e dell’he fondono in alcova, e ne sale un we complementare come richiamo, pigolio di un nuovo nato: il pronome della solitudine accolta.
Monica Pavani
Il libro
Quentin Clewes
Lei
Fazi, 2004
Collana: Tascabili
Traduttore: F. Cancogni
115 p., brossura
Il libro attualmente è fuori catalogo
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