Nella storia del mondo, ci sono state persone, la cui vita è stata talmente breve da rischiare di non lasciare traccia. Poi, però, per qualche strano caso o per destino, quella traccia è rimasta e ha persino avuto un’importanza per le generazioni a seguire. La vita di Marie Bashkirtseff, pittrice e scrittrice di fine Ottocento, può essere annoverata fra queste. Nasce il 23 novembre 1858 a Havrontsi, in terre ucraine allora parte dell’Impero russo, ma ben presto si trasferisce in Francia con la sua famiglia, prima a Nizza e poi a Parigi. Appassionata di arte e letteratura, parla anche diverse lingue, e, da ragazzina, ha il sogno di poter diventare una cantante di successo, ma è costretta a rinunciare a quest’ambizione quando si ammala di tisi. Decide, allora, di dedicarsi alla pittura, frequentando i corsi dell’Académie Julian. Questa, insieme all’Académie Colarossi, che negli stessi anni frequenterà la scultrice Camille Claudel, è una delle pochissime scuole private che permette l’accesso alle donne, dato che l’Accademia di Belle Arti lo vieterà fino al 1897.

Marie è diversa da molte altre ragazze della sua età, pur essendo bellissima e molto corteggiata, ha rinunciato ai sogni romantici, lei vuole dedicare tutta sé stessa all’arte, vuole diventare una pittrice affermata. Dall’età di quindici anni, inizia a tenere un diario giornaliero in cui annota tutte le sue riflessioni e ambizioni:

“Questo povero diario che contiene tutte queste aspirazioni verso la luce, tutti questi slanci che potrebbero essere stimati come gli slanci di un genio imprigionato, se lo scopo fosse infine coronato dal successo, o che saranno considerati come il delirio vanesio di una creatura banale, se dovessi marcire in eterno! Sposarsi e avere figli! Ma ogni lavandaia può fare lo stesso. A meno che non si trovi un uomo civile e illuminato oppure debole e molto innamorato. Ma cosa voglio? Oh, lo sapete cosa voglio. Io voglio la gloria!” (p.210, vol.1)

La passione per la pittura diventa una forza di propulsione fortissima, nonostante la malattia continui ad affliggerla: dipinge dalle 8 del mattino alle 6 del pomeriggio e la sera spesso si dedica anche alla scultura. Nel 1880 espone la sua prima opera al Salon, accanto ai quadri degli affermati Auguste Renoir e Jules Bastien-Lepage e, tre anni dopo, vince anche una medaglia: è l’inizio della sua carriera. L’anno successivo dipingerà L’Académie Julian, che diverrà un’importante testimonianza della presenza femminile nell’arte del diciannovesimo secolo. Ma Marie è anche consapevole del fatto che una donna non avrà mai le stesse possibilità di un uomo, che il mondo dell’arte è da sempre un circolo di soli uomini che regala pochissimo spazio ad altre soggettività:

“(…) vorrei essere un uomo. So che potrei diventare qualcuno; ma con la gonna dove vuoi che vada? Il matrimonio è l’unica carriera per le donne; gli uomini hanno trentasei possibilità, le donne solo una (…). Non sono mai stata così indignata per la condizione delle donne. Non sono neanche così folle da pretendere questa stupida uguaglianza, che è un’utopia, perché non ci può essere uguaglianza tra due esseri così diversi come l’uomo e la donna. (…) io non sopporto di essere una donna, perché lo sono solo esternamente.” (p.93, vol.2)

Nel 1881 inizia a collaborare con il movimento femminista Droit des Femmes, scrivendo articoli sotto lo pseudonimo di Pauline Orell per la rivista La Citoyenne, creata da Hubertine Auclert. Il nome della rivista rimanda esplicitamente ad un caposaldo del femminismo francese, la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne di Olympe de Gouges, protofemminista di fine Settecento. Bashkirtseff firma un articolo intitolato Les Femmes Artistes nel numero di marzo 1881, in cui descrive le limitazioni e le discriminazioni subite dalle donne artiste in quegli anni, richiamando l’attenzione anche su un discorso di classe: le scuole private come l’Académie Julian sono accessibili solo per donne benestanti, quelle povere e della classe operaia hanno ancora meno possibilità. È in quegli anni che Marie conosce le opere di Émile Zola, l’Assommoir, in particolare, ha risvegliato in lei una nuova coscienza che la influenza anche a livello artistico: inizia, infatti, ad inserire scene di strada, paesaggi urbani e persone comuni nei suoi dipinti. Sono di quel periodo, ad esempio, Un meeting e Le parapluie. Passa gran parte delle giornate ad osservare la gente per strada, vaga per le vie senza una meta precisa, cattura con gli occhi qualunque sguardo la colpisca. Bashkirtseff verrà ricordata come una delle prime flâneuses, le donne che iniziano ad occupare spazi urbani con la loro presenza, il loro sguardo, volto ad osservare gli altri e non ad essere osservate, a perdersi nella doppia irrequietezza della loro anima e del mondo esteriore. Ma se per un uomo come Charles Baudelaire o Walter Benjamin praticare la flânerie è una cosa ordinaria e sicura, per una donna le cose sono diverse: una donna da sola, che se ne va a zonzo per le strade, non passa inosservata.

“Ciò che più desidero è la libertà di passeggiare da sola, girare, sedermi ai giardini di Tuileries o del Luxembourg, di fermarmi a guardare i negozi per artisti, di entrare nelle chiese e nei musei, di camminare nelle vecchie strade di notte. È questo che desidero, senza questa libertà non si può diventare veri artisti. Pensate che si possa trarre beneficio da ciò che si vede quando si è sempre accompagnate da qualcuno, quando, per andare al Louvre, bisogna aspettare la carrozza, lo chaperon o la propria famiglia? Ah, per l’amor del cielo, è per questo che detesto essere donna! Mi troverò degli abiti borghesi e una parrucca e mi renderò così brutta da poter passare inosservata, libera come un uomo. Ecco la libertà che mi manca e senza la quale non si può arrivare ad essere realmente qualcuno. I pensieri sono incatenati da questo stupido tormento irritante, e anche mascherandomi, rendendomi brutta, sarei libera solo a metà: una donna che gironzola è comunque un’imprudenza. (…) Ecco uno dei motivi principali per cui non ci sono artiste donne.” (pp.110-112, vol.2)

Pochi mesi prima di morire, a maggio 1884, Marie decide di affidare tutti i suoi desideri per il futuro alla prefazione del suo diario, a lungo progettato per la pubblicazione, che diventa, così, il suo testamento:

“Se dovessi morire così, all’improvviso, per una malattia… potrei non accorgermi di star per morire, me lo nasconderebbero, e dopo la mia morte frugherebbero nei miei cassetti. Allora, troverebbero il mio diario, la mia famiglia lo distruggerebbe dopo averlo letto, e presto di me non resterebbe più niente, niente, niente… È questo che mi ha sempre spaventata. Vivere, avere tante ambizioni, soffrire, piangere, lottare e, alla fine di tutto, l’oblio! L’oblio… come se non fossi mai esistita. Se non vivrò abbastanza per essere illustre, questo diario interesserà gli scrittori naturalisti; incuriosisce sempre leggere la vita di una donna, scritta giorno per giorno, senza finzione, come se nessuno al mondo dovesse mai leggerla, e allo stesso tempo con l’intenzione di essere letta. E poi sono abbastanza sicura che mi troverete simpatica… e che ho scritto tutto, tutto, tutto. Altrimenti, che senso avrebbe?” (pp.12-13, vol. 1)

Muore, dopo anni di malattia, a Parigi, il 31 ottobre 1884 e verrà sepolta in un mausoleo di famiglia nel cimitero di Passy. Lascia al mondo circa 200 opere pittoriche, di cui solo una sessantina sopravvivono alla Seconda guerra mondiale e alla razzia nazista; alcuni articoli di giornale pubblicati; centinaia di lettere, in particolare, la nota corrispondenza con Guy de Maupassant; e soprattutto un diario, in cui Marie scrive quasi ogni giorno fino all’ultima settimana della sua vita. La versione integrale dei diari conta oltre diciannovemila pagine. La prima edizione, tagliata ed edulcorata dalla famiglia, è del 1887. Diverse altre ne sono succedute, ma nessuna è mai stata tradotta in italiano. Dopo la prima pubblicazione, il diario diventa un caso letterario; viene anche tradotto in lingua inglese e diviene un’ispirazione per diverse autrici e diversi autori dell’epoca: Katherine Mansfield, che la rilegge più volte nel corso della sua vita; Anaïs Nin, George Bernard Shaw, Oscar Wilde, Simone de Beauvoir, fino agli americani Bruce Fredrerick Cummings e Marie MacLane, per tutte e tutti loro la scrittura di Bashkirtseff è stata un modello. Il primo ministro inglese William Gladstone lo definì addirittura un libro senza precedenti e di lei ne parlò come di uno di “quei rari esseri umani che nascono solo una o due volte per generazione”.

Nonostante la brevità e l’incompletezza della sua vita, Marie Bashkirtseff è riuscita in ciò che pochi riescono, ovvero lasciare una traccia del proprio passaggio su questa terra, merito della sua forza d’animo e della sua straordinaria ambizione, oltre al suo indubbio talento.

“È inutile parlare! Anche se dicessimo cose sensate, (noi donne) saremmo sottoposte alle vecchie e comuni prese in giro con cui si opprimono i difensori delle donne. Del resto, si ha pure ragione a ridere. Le donne non saranno mai altro che donne. Eppure, se le si educa allo stesso modo degli uomini, la disuguaglianza che tanto deploro diverrebbe nulla e non rimarrebbe che la disuguaglianza intrinseca alla natura stessa. Ebbene, checché ne dica, bisogna gridare e rendersi ridicoli (anche se lascio ad altri questo compito) per ottenere quest’uguaglianza tra un centinaio d’anni. Intanto, io farò un dispetto alla società, mostrandole una donna che è diventata qualcosa, nonostante tutti gli ostacoli con cui l’ha sommersa.” (pp.110-112, vol.2)

Donatella Marcatajo