“Industrial societies turn their citizens into image-junkies;
it is the most irresistible form of mental pollution”.
(S. Sontag, On photography)

Beauvoir non ha mai smesso di scriversi, di raccontarsi giorno dopo giorno. E attraverso le memorie, che sono un’autobiografia sempre in corso, e la corrispondenza, lettere su lettere, che scriveva quotidianamente, di quelle che non scriveremo mai più, di costruirsi, redigendosi. Di nascere e rinascere in una trasposizione continua. Di intrecciare con un’energia ed una vitalità che non smettono di sorprendermi, vita e scrittura. Salvarsi e soprattutto fortificarsi attraverso le parole. E negoziare la propria identità nello spazio inebriante della scrittura. La scrittura si fa così misura della distanza o della vicinanza all’altro, a Sartre soprattutto, una distanza che si bagna sempre nell’inchiostro (Catherine Poisson). Come scrive Nancy Huston: Beauvoir “s’est livrée”, si è data a noi tutti scrivendosi, facendosi letteralmente libro. In questa trama lei non scompare mai, non si sottrae mai a se stessa.

Il quaderno Beauvoir de L’Herne (Cahier 100), di cui La femminilità è una trappola, traduce alcuni testi, racconta questa corrente narrativa in cui i generi (saggio, romanzo, memoria, pièce di teatro, corrispondenza, diario) si mescolano. O piuttosto si avvicinano e si uniformano, fondendosi in un lungo racconto autobiografico. Come se fosse sempre la stessa materia a cui Beauvoir dà di volta in volta una forma diversa. Una materia che non si chiude come una cartina conquistata timidamente tappa a tappa, ma una strada lunga su cui camminare a piedi fino alla fine, senza paura, senza sentire la fatica, fino al limite, fino a scoprire tutto di sé. Ai due estremi della scrittura, che è stata anche una ricerca della felicità (bonheur), ci sono queste due affermazioni quasi modeste e inaspettate: “Je ne me considérais pas comme une philosophe” e “je n’ai pas été une virtuose de l’écriture”. In mezzo una donna “écartelée” tra filosofia e letteratura. Ma soprattutto, una donna con le idee chiarissime, un forte senso pratico e un progetto di libertà.

Le deuxième sexe, testo di culto, universale, non è un saggio classico. È pieno di contaminazioni, scritto con uno stile letterario, la conclusione di quella riflessione sulla sua biografia che sono le memorie (Memoire d’une jeune fille rangée, La force de l’age, La force des choses). Beauvoir raccontava nel volume La force des choses: “Voulant parler de moi, je m’avisai qu’il me fallait décrire la condition féminine”. La necessità di scrivere della condizione della donna viene dunque da prima. Da quella ragazza perbene che ha appena passato la famosa agrégation in filosofia, seconda dopo Sartre, seconda nonostante non abbia potuto frequentare i corsi di preparazione all’École Normale, al tempo chiusa alle donne. Insegna in un liceo di provincia a Rouen, e si vede al centro di uno scandalo per aver fatto delle dichiarazioni in classe contro le politiche di sostegno alla natalità (“Sulla questione famiglia e natalità”). Ma in realtà quello scandalo nascondeva l’insofferenza di una comunità scolastica bigotta nei confronti di questa brillante insegnante di filosofia, che indossava anche cravattine, dal forte ascendente, di cui tutte le studentesse erano praticamente innamorate. Soprattutto alcune di loro, Olga Kosakiowicz e Nathalie Sorokine, che furono anche sue amanti. Ma forse viene ancora da più lontano, dall’amicizia con Zaza, che, prima di farsi carne e ossa nelle memorie, aveva già ispirato il personaggio di Anne (in Quand prime le spirituel) prima di essere semplicemente Zaza: una ragazza della stessa borghesia a cui apparteneva Beauvoir. Frequentavano assieme il cours Désir. Lei, Zaza, forse la emancipò, o piuttosto Beauvoir cercò in quell’amicizia e in quel primo amore quel desiderio di emancipazione che già covava dentro. Zaza contestava la madre, era insolente. Eppure non poteva fare a meno di obbedirle. Poi Zaza si lasciò morire quando la madre le impedì di sposare il filosofo Marleu-Ponty di cui era innamorata mentre Beauvoir si era un po’ allontanata da lei nel pieno dell’entusiasmo per l’amicizia appena nata con Sartre. La rivolta, il senso di ingiustizia, non volere che accadesse a lei quello che è accaduto a Zaza, non soffrire e soffocare, non subire i tradimenti come aveva visto fare alla madre rispetto a quelli del marito. Soprattutto, non sentirsi più colpevole per la morte di Zaza. Questi sono forse i sentimenti primordiali di rabbia e rimorso (“J’ai achete ma vie avec sa morte”) che stanno alla base del Secondo sesso.

Le memorie, che partono dai Cahier di jeune fille, in cui Beauvoir dice di costruirsi, cioè di inventarsi sono anche finzione e allo stesso tempo una forma di scrittura di una vita etica, un esercizio di filosofia. Sono quel continuo della scrittura che permette di sperimentare sul fondo e sullo stile fino a Une femme rompue, dove si completa quel lavoro sulla scrittura che si fa interrotta nel monologo e nel flusso di coscienza. Ma La femme rompue è anche continuare ad interrogare la condizione femminina dal di dentro. Les Mandarins, il romanzo “à thèse”, con cui vinse il Prix Goncourt, nasconde sullo sfondo di quel microcosmo parigino dell’après-guerre e della resistenza, anche la relazione di Beauvoir con il romanziere americano Nelson Algren, il rapporto con Sartre, e lei stessa, tornando così ad attingere alla corrispondenza e alle memorie (L’Amerique au jour le jour). Perché nel romanzo, scrive Beauvoir, si tratterebbe di raggiungere un certo grado di generalità e di verità alla nostra vita di tutti i giorni. Così come il romanzo e i personaggi hanno bisogno di una verità biografica per essere convincenti, più veri.

Nel Journal de guerre, diario del periodo in cui Beauvoir e Sartre sono separati, Beauvoir racconta i giorni in cui è sola a Parigi mentre i suoi due amanti, Sartre e Jacques Laurent Bost, sono prigionieri. Scrive “Hier soir je parle longtemps avec Sartre d’un point qui m’interesse en moi justement, c’est ma “féminité”, la manière dont je suis de mon sexe et n’en suis pas”. Una delle idee centrali del Secondo sesso, è già qua. Ma le corde che tengono assieme la scrittura e il pensiero di Beauvoir si avvertono soprattutto in Une morte très douce, in cui Beauvoir racconta la malattia e la morte della madre, mentre lei e sua sorella Poupette vanno e vengono dall’ospedale fino a quel “c’est fini” che ingoia tutto il racconto, la rabbia e l’incredulità. Questo breve racconto si allaccia di nuovo all’autobiografia, racconta della sua vita una fetta di realtà molto più difficile da formulare, su cui lei sembra avere meno controllo, e la racconta in modo più immediato, con meno filtri. E, come doveva essere, si scrive lì, tra La force des choses che lo precede, affievolendo, almeno per un momento, quell’energia straripante di Beauvoir, e La veillesse, aprendo passo ad una nuova riflessione, a quello che seguirà.

La scrittura autobiografica serve a costruire quella continuità nella sua vita, che sembra essere ciò che la preoccupa di più: una massa solida da opporre allo scorrere del tempo e all’angoscia che questo le provoca. Quella stessa continuità fatta anche di Sartre, di Parigi, degli amici di sempre, della decisione di lasciare Algren e di gestire quella storia americana, che ha tutti i contorni di una grande passione, come una semplice parentesi. “Donc ce n’est pas que j’ai senti que le temps cassait les choses, c’est plutôt ce bilan que j’établis régulièrement dans ma vie, je calcule : voilà j’ai tant d’années derrière moi, tant devant ».

Di questa corrente narrativa inarrestabile, La femminilità è una trappola sceglie soprattutto i testi, fin qui inediti in Italia, in cui la pensatrice francese riprende il suo pensiero femminista. Ma non solo. Beauvoir ci parla di Sartre (“Ritratto di Jean-Paul Sartre”) come solo lei sa fare, con la chiarezza di chi ne ha condiviso profondamente il pensiero, partorendolo assieme, assieme a un linguaggio nuovo, l’idioletto sartro-beauvoirien, in un sodalizio intellettuale in cui l’uno è sempre stato il primo lettore dell’altro. Due opere che sono quasi l’una il prolungamento dell’altra, porose e permeabili fino ad una forma di co-scrittura o piuttosto di scrittura parallela. Tanto prossimi da far dire ironicamente a Nancy Huston che non si sa bene dove comincia l’uno e finisce l’altro. Ma anche, scendendo più a fondo, come l’uno il negativo dell’altro. Il femminismo di Le deuxième sexe, potrebbe anche essere un risposta di Beauvoir alla misoginia e al fallocentrismo di Sartre. Ma soprattutto assieme in uno spazio intermedio in cui l’opera di Beauvoir rivendica la sua autonomia.

Beauvoir ci parla di Sartre con l’intimità di chi ne ha condiviso la vita fino a non distinguersi da lui “cher petit vous autre moi”, fino agli angoli più bui, nei bar di quella Parigi del caffè du Flor, della Coupole, du Harry’s bar, nel posto scomodo in cui i triangoli amorosi mettevano di volta in volta l’uno o l’altra. Con Olga Kosakiewicz, con Loren Bost, studente di Sartre, con quelle persone che avevano battezzato “la petite famille”, con il romanziere americano Nelson Algren. Dal suo balcone Sartre vede al di sopra del boulevard Raspail l’edificio bianco dove vive quella che lui chiama ancora Le castor, lì come un punto fermo. Nell’entusiasmo e l’audacia del dopo guerra, nella convinzione profonda di costruire una nuova filosofia, un uomo nuovo, una società diversa. In uno scambio di doni e controdoni. Della loro relazione si è sempre detto che era aperta ad amori contingenti che non avrebbero mai tolto niente all’unico amore necessario, il loro. Ho sempre pensato che Sartre si sentisse minacciato dalle donne (elle me font chier, toutes, scrive in una lettera a Beauvoir), che non volesse essere “usato”, e che quando gli faceva comodo scappasse dalle passioni. Così come ho pensato che forse Beauvoir soffrisse per le infedeltà di Sartre e che i suoi fossero appunto adulteri contro adulteri. In un mènage assolutamente inedito e personale in cui Beauvoir è sempre dietro alle relazioni di Sartre, con Wanda, con Olga Kosakiewizc, con Bianca Bienenfeld, senza perdere mai terreno, quasi come se fosse capace di muoverne le fila e gli intrecci, magari provandone anche lei piacere. In questa fuga, lui dalle altre donne, mangiatrici d’uomini, e lei dalla paura di perdere quel posto accanto a lui, di chère petite figure, si sono incontrati lì, in un connubio che fa da sfondo sicuro, una vera vita, che li salva come un ancora.

 Eppure oggi ne vedo più la prossimità con lo sforzo di accettare l’altro “per davvero”, così com’è, “comme je suis”. Dove “per davvero” ha a che vedere con sentimenti senza troppi bluff, senza troppi rilanci, senza ricatti, senza troppe lacrime, né troppa dolcezza. “La vrai tendresse n’a plus d’objet”, gli scrive Sartre mentre lei è in America. Beauvoir è stata invitata per un giro di conferenze. È il 1947 e lei ha iniziato a scrivere Le deuxième sexe. A Chicago c’è Nelson Algren, anche lui scrittore. Algren racconta le storie che vengono dai bassifondi, quelle dell’America che si accontenta, e per raccontarle vive di notte. Lo ha appena conosciuto, si sono subito piaciuti ed hanno iniziato una liaison che durerà per dieci anni, fino ai malintesi e alla rottura. Lui, l’uomo che forse amò con maggior passione, più liberamente, con maggiore abbandono, come quei capelli sciolti, lei che li ha sempre tenuti legati, o come in quella foto che la ritrae nuda di spalle, quel dos su cui Sarte chiude a chiave la porta sentendosi al sicuro, e che

Simone de Beauvoir, Paris. 1948. Photo: Gisèle Freund

Algren invece fotografa. Con la differenza che si inabissa tra quel mon petit, ma petite ame, con cui Beauvoir si rivolge a Sartre e quel mon amour con cui si abbandona o forse meglio finalmente domina la relazione con Nelson. Mentre lui dorme, Beauvoir è in un drugstore a leggere la lettera di Sartre appena recapitata. Gli scrive che per una volta non sente la sua mancanza, che non c’è posto per lui nelle sue giornate “mais vous etes mon horizon, mon univers, je ne vous ai pas quitté. Non c’è nessuna infedeltà rispetto a se stessa. Con quella se stessa che vuole rientrare nella sua pelle, dopo l’America e dopo Algren.

Il dibattito sul femminismo moderno, quello diciamo così iniziato da Simone de Beauvoir, ha un tic: chiedersi quanto siano ancora attuali le parole di Beauvoir, visto che la quotidianità della filosofa francese era molto diversa da quella che vivono oggi le donne in Francia ed altrove (almeno nei paesi cosiddetti “civilizzati”). E allora? La loro vita era davvero così diversa dalla nostra? Sì. Oggi meno donne potrebbero scrivere: ho 29 anni, quattro bambini e dieci aborti (che allora non erano ancora un diritto). Per citare una delle lettere che Beauvoir riceveva a centinaia quotidianamente dopo la pubblicazione del suo saggio. Eppure c’è ancora chi deve scrivere di nascosto, di nascosto da qualcuno, anche da un marito violento.

Come se il Secondo sesso possa ispirare oggi soltanto l’amore per un’opera datata eppure (argomenta la critica) ancora attuale. Così Michèle Le Doeff ci racconta la svolta storica di Beauvoir nel mettere una bella pietra sopra il materialismo (è così, è la natura) in nome del quale si sono giustificate discriminazioni e prevaricazioni. È quello che Beauvoir ha fatto con il suo saggio e con quella frase epica: on ne nait pas femme on le devient. Eppure resta un classico, con un lessico già datato e soprattutto con un certo dogmatismo che nasconde dei pregiudizi di volta in volta omofobi o eterofobi. Il famoso androcentrismo che alcune femministe contestano a Beauvoir come se stesse dicendo alle donne di fare come gli uomini per emanciparsi, emanciparsi dal corpo e dalla sua immanenza e farsi puro spirito, pura trascendenza. Così ritroviamo le grandi e piccole contraddizioni, perdonabili o assolutamente no. Soprattutto quella grande contraddizione tra la teorica femminista e la donna che in un certo modo si è quasi immolata a Sartre, la donna che sarebbe stata davvero disgustata da tutto ciò che aveva a che vedere con la maternità, e con tutte le donne, anche colleghe, che diventavano madri, asciutta fino alla mancanza di qualsiasi empatia. Eppure questa contraddizione, che possiamo spingere fino a ricordare la cecità della pensatrice rispetto ai crimini che i regimi comunisti compivano mentre Beauvoir visitava la Cina e pubblicava La longue marche, forse fino ad andare contro se stessa, la rende solo assolutamente moderna rispetto a quell’immagine artificiale di donna tutta d’un pezzo, che pure è stata. E racconta un altro elemento forte del suo pensiero: l’ambiguità (Pour une morale de l’ambiguité) della nostra condizione.

Il discorso che apre Beauvoir con i miti, che sono appunto gli scenari che gli uomini proiettano sulle donne, modellandole secondo le loro fantasie, e condannandole così all’immanenza, è una strada sempre aperta. Una specie di contenitore che non si svuota mai. Piuttosto, la macchina che macina miti e le piattaforme che li diffondono (le “parastrutture del potere” di cui parla Marina Pierri in Anche questo è femminismo, Bossy) sono sempre più ramificate e invasive (serie tv, storytelling, social). Il mainstream si è spezzato, camuffato, subdolamente diviso per non apparire tale. Rafforza vecchi miti, dandogli giusto un brillo diverso, mascherandoli sempre meglio tanto da far apparire questi nuovi cliché come dei contromiti, un’altra storia, e le donne moderne delle nuove eroine. Ai clichés di cui ci parla Beauvoir se ne sono aggiunti altri, assieme ad altri “ismi” e discriminazioni mentre quelli trovati da Beauvoir sono ancora in circolazione, nonostante tutto, tutti i progressi e le emancipazioni. Beauvoir aveva intuito come femminismo e razzismo “si intersecano”, e su quell’innesto è nato quel “femminismo interstiziale” che continua a scavare i confini tra discriminazioni e stereotipi (“bias”). Ma soprattutto quello che resiste è che la donna continua in qualche modo a vivere immaginandosi come la protagonista di una vita fantasticata da lui o semplicemente da un altro, dagli altri. Oggetto infinito di un immaginario quando si identifica ma anche quando si oppone a quell’immagine e crede di rigettarla.

Simone de Beauvoir ha lasciato la pagina in bianco, l’ha ripulita. Anzi ha scritto l’incipit, quella prima famosa frase lì. Il femminismo che è venuto dopo di lei, quello degli anni ‘80 e ’90 (quello postmoderno e poststrutturalista) ha continuato a riempirla. Julia Kristeva racconta che per ritrovarsi bisogna ritornare al corpo della madre, un cammino dei sensi come alternativa all’esilio in cui ci confina la legge del padre. Tornare a quell’amalgama preedipica e prelinguistica dove tutto sarebbe di nuovo possibile. Luce Irigaray si riappropria anzitutto del discorso sulla sessualità femminile che fin lì è stata costruita secondo parametri maschili (come desiderio di possedere l’equivalente di un pene), mostra il nostro sesso (che è sempre stato una specie di non sesso, non luogo, per tutte le volte in cui è stato designato come l’altro, il contrario dell’unico sesso morfologicamente visibile) racconta la molteplicità del desiderio e del linguaggio femminile, polimorfo e autoerotico (Ce sexe qui n’en est pas un). Con Hélène Cixous, la libidine (che esiste ed è) eterogenea diventa «cosmica» e la molteplicità delle zone erogene si deforma in una «erogenità dell’eterogeneo», un incosciente comune dal quale sorgono forme, suoni, desideri e bellezza. Monique Wittig vede nei corpi degli artefatti politici modellati con violenza attraverso il linguaggio. Solo con il recupero di un linguaggio universale e originario la donna potrà esistere come soggetto, fuori della eterosessualità normativa.

La donna (come l’uomo) quindi si fa attraverso il linguaggio, una specie di involucro esterno al cui interno la femminilità sfugge a qualsiasi definizione perché non ne voglio fare l’oggetto né il soggetto di alcuna definizione.

Simone de Beauvoir, Roma, 1978. Photo: François Lochon

Poi arriva Judith Butler (Gender trouble). Anzi è giusto dire che arrivano Butler e Foucault (Histoire de la sexualité) con la sua idea forte secondo cui neanche l’eros sarebbe una corrente libera ma tutto sempre maledettamente strutturato. Butler spinge questo discorso ancora oltre. Il “genere” (che non è il sesso anatomico e non ne è vincolato) è un campo di possibilità e di interpretazioni. Un prodotto della cultura eterosessuale che in un circolo vizioso genera identità fittizie nel momento stesso in cui le proibisce. Non esisterebbe un momento anteriore (anteriore alla Legge del Padre), né un originale, rispetto al quale tutto il resto sarebbe solo una copia o il suo opposto. Tutto si svolge all’interno di questo circolo interpretativo. Qualsiasi strategia di emancipazione sarebbe solo una concretizzazione ulteriore della legge del Padre. Dietro non c’è niente, niente altro che quello che viene dopo ossia una performance, una scelta (peraltro limitata, e non così libera come voleva Beauvoir) assieme alla sessualità e al comportamento. Non ci resterebbe che sovvertire i generi già stabiliti per creare nuove soggettività. Una specie di bestiario di creature fantastiche.

Il femminismo è qui, cercando ancora di costruire questa differenza, e di definire un progetto emancipatorio tirandolo per diversi lembi: tra l’inclusione, la dispersione, e la proliferazione dei generi. A tirare forte il lembo fino a dire che solo nella fluidità dei generi sia possibile liberarsi, essere non conformi o anticonformisti. Ma soprattutto qui a fare i conti con la reazione della cultura patriarcale (spesso brutale) rispetto all’avvenuta emancipazione della donna.

La letteratura entra in questo dibattito per decostruire e smantellare miti. Per mettere finalmente sulla pagina quello che ci hanno chiesto di dimenticare in quella zona, in fondo ancora inesplorata, del refoulement. Finalmente leggiamo di corpi che sono come sono, e va bene così; la bellezza e la femminilità si sfarinano in un sembrare che non ci basta più; il rapporto madre figlia è una discendenza dolente. Io, la narratrice, la protagonista, sono sempre più autobiografica, sono sempre di più fatta di diverse persone: io e la mia controfigura, io e la me cattiva, inopportuna, maligna, invidiosa, la me che semplicemente può sbagliare. Finalmente leggiamo di un mondo dove c’è spazio anche per il “mondo di mezzo” e i “sottomondi”, dove i sentimenti sono posture. Dove in fondo siamo tutti una parodia di qualcosa. Non ci sono originali, siamo tutti copie di una copia. La letteratura è finalmente uno spazio (Teresa Ciabatti ne è un esempio meraviglioso) per azzerare frontiere morali, inibizioni sociali, in cui si può essere affascinati dalle patologie private piuttosto che pubbliche. Un spazio in cui finalmente non ci sentiamo più protetti.

Le nuove attiviste ci dicono di fare rumore e di fiorire, al ritmo di uno slogan “to be”, “coming out”, “body positivity”, “empowerment” (tutti ereditati dalla teoria femminista e queer americana assieme ad una serie di neologismi). Possediamo un corpo che è un doppio corpo, quello nostro (con cui per un motivo o per un altro sembra che non stiamo mai a nostro agio) e quello che ci ha consegnato la cultura patriarcale (quello che decisamente non ci fa sentire a nostro agio) sgravandosi del suo per essere pienamente libera. Una somma di corpi che ci affondano nell’immanenza (quella di cui parla Beauvoir). Un handicap, a trape per Beauvoir, che ci limita ma da cui possiamo trascendere, esercitando le nostre libertà. Un luogo di infinite possibilità, dove poter indossare diverse pelli senza dovercene cucire davvero una nuova, ci dice anche Butler. Le attiviste ci esortano a mostrarci, esporci, per esibizionismo, perché mi piace ballare, perché mi piaccio così. Senza doverci più ritirare per pudore in quel doppio movimento di mostrare e nascondere per eccitare ed assecondare le fantasie maschili. Un corpo da condividere, da modellare assieme alla propria community, ne bello né brutto, né etero né omosessuale. Siamo finalmente libere.

Eppure mi chiedo se possiamo dire “non sono un corpo” (o non sono solo questo) ma sono quello che sta prima di “me”, continuando a mostrare questo corpo che va bene così com’è, che mostro così com’è senza inibizioni, ma che non è mai all’altezza di qualcosa (sembra dire il sottotesto), anche se questo non mi pone più nessun problema. Un corpo che si muove sempre all’ombra di un canone (o di un cotrocanone). Quella maledetta bellezza, archetipo stabilito nella notte dei tempi, una fantasia onnipresente, forse sempre più presente, sempre più “mitizzata” (attraverso i social). Un canone che direttori artistici come Pierpaolo Piccioli (della maison Valentino), o Alessandro Michele pretendono di riscrivere: una nuova anatomia della couture, inclusiva, senza età né sesso, in cui il corpo non si adatta più al disegno ma avviene il contrario, mentre questa atomizzazione dell’umanità si inquadra comunque in una cornice, in una “costruzione” in cui la normalità dei corpi così ricuciti resta qualcosa di artificiale; in cui tutti i corpi sono mostrati in modo da sembrare sempre lo stesso.

Questo circolo vizioso (sottrarci al nostro corpo, che non è così nostro, mostrandolo comunque) sembra avvolgerci davvero come una trappola da cui non si scappa. Questo corpo è davvero così centrale? E così mentre crediamo di distruggere e rifondare, mentre ci crediamo sempre più al potere, in una dialettica che è sempre purtroppo della contrapposizione, finiamo in qualche modo per essere quella donna statica e autoidentica che non volevamo essere. In questo flusso dei social in cui realtà e fantasie si allacciano perversamente, in cui ci esponiamo sempre di più per nasconderci sempre di più, per “mostrare l’angolo illuminato della stanza”, anche la donna finisce per occultarsi (che non ha niente a che vedere con la visibilità). E siamo qui a mostrare i nostri corpi così come sono mentre dimagriamo, ci alleniamo, in pigiama o agghindate per una serata tra amiche, mentre ci facciamo quel piccolo ritocchino necessario, mentre allattiamo, ci trucchiamo, mentre siamo noi stesse, senza tabù, con il grasso, con le macchie, con le rughe, ma ancora insicure e piene di complessi, in un lungo monologo che a volte amo e a volte no.

Silvia Acierno