Quando il poeta Giovanni Raboni dové definire la poetica di Giorgio Caproni individuò tre nuclei fondamentali attorno cui ruotava la sua galassia compositiva: la madre, la città, il viaggio. Potremmo dire, sintetizzando: viaggio nella città-madre; oppure: viaggio nella madre-città.

Certo, la poetica di Caproni non si esaurisce in una triangolazione altrimenti povera e asfittica; una tale supposizione sarebbe improponibile, come chi affermasse che la poesia di Giovanni Pascoli ruoti unicamente intorno al nido e a un intreccio di morbose relazioni. Ma è indubitabile che, sullo sfondo delle sue liriche si stagli, grande e corrusca, lirica e immaginaria, la sua Genova, la città di pietra. 

Caproni era livornese, ma amò la sua Genova con amore viscerale e ne percorse carruggi e scale così come percorreva le scale musicali con il suo violino. E a proposito, tutto nacque dalla musica, o meglio da una delusione in campo musicale: il giovane Giorgio era intento a comporre un coro a quattro voci affidando al tenore versi estratti dal Poliziano e dal Tasso; ma scoprì che il maestro non li leggeva. Così decise di cominciarne a comporre di propri. E amò la rima per la sua musicalità e l’allegoria per la sua apertura a una radiosa epifania: “Come un’allegoria / una fanciulla appare / sulla porta dell’osteria”.

Un’immagine luminosa che irrompe nel buio interno come un Cristo caravaggesco, a indicare un altrove impossibile al di qua del quale brulica la vita dei viventi. Tanti temi si intrecciano in Caproni come in una rosta arabescata, la cui ombra gigantesca fu la guerra nel cui putrido calamaio intinse la sua penna che ormai da violino si stava trasformando in arma. Fra i tanti temi ve n’è uno apparentemente fuori coro, quasi un piccolo Cantico delle creature espresso in forma di “memento, homo”. Sono i Versicoli quasi ecologici non a caso tratti dalla raccolta Anarchiche o fuori tema:

Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: “Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra”.


Scrivere una poesia a tema è roba da grandi poeti. Il rischio è che l’ispirazione sia rimessa all’ombra della scaletta programmatica. In Caproni ciò non è avvenuto e, malgrado i toni da invettiva quasi prosastica, non si perde però l’incanto del poeta (civile!) quale era partito dal grembo della sua Genova costruendo, per essa, un’altra città poetica così ordinando, mediante essa, i “laterizi” del suo canto.

Fabio Barissano