Chissà se in uno dei prossimi saloni del libro troveremo mai uno stand dedicato agli autori dimenticati della letteratura italiana del Novecento nella quale hanno lasciato la loro, inconfondibile, firma. Basterebbe un angolo senza molte pretese dove la generazione di chi ha letto tali scrittori negli anni della loro notorietà possa incontrare oggi quella dei non ancora lettori in un confronto che innesti anche riflessioni sul presente.

Chissà che non si torni a parlare di Luciano Bianciardi e del suo romanzo decisivo, La vita agra, definito da Franco Fortini ‘intempestivo’. Abbiamo ancora bisogno di quella lingua limpida e prensile, aspra e sarcastica, con la quale lo scrittore toscano ha saputo catturare nelle sue pagine le metamorfosi kafkiane della sua epoca, anche nei suoi risvolti culturali, con lo sguardo penetrante di un uomo comune tra uomini altrettanto comuni, lasciando a altre penne della letteratura l’osservazione della società dall’alto della loro autoreferenziale ideologia letteraria.

Bianciardi è stato un arrabbiato, ma in fondo onesto con sé stesso, un anarchico errante, senza patente, nell’Italia della ricostruzione, uno spirito coltissimo creatore del Bibliobus stipato di libri da portare nelle campagne e nelle miniere a chi non sapeva neanche cosa fosse una biblioteca. E ancora: uno scrittore che ha puntato il dito, decisamente profetico, contro la realtà degli Anni ’60 e le sue convulsioni ponendo sé stesso al centro delle proprie riflessioni, anche critiche; uno spirito libero che, con la propria ‘cattiva coscienza’ e con sguardo chirurgico, ci ha mostrato il doppio fondo di un’Italia «troppo soddisfatta della sua composta perfezione» smascherando i lati oscuri e gli inganni del boom economico votato al profitto che restituisce un finto benessere.

E così due anni dopo il successo del film La dolce vita di Fellini e delle sue atmosfere neodecadenti sospese tra sogno e spettacolo, esce nel 1962, come una sorta di replica, La vita agra, un romanzo dai continui rimandi autobiografici e confessionali alla Henry Miller. Ricordate la scena iconica del bagno nella Fontana di Trevi? Bianciardi sembra riprendere la narrazione proprio nel punto in cui Marcello Mastroianni, nel film un aspirante scrittore, sta per baciare (ma non riesce) Anita Ekberg, novella ninfa mitologica. Non riesce perché l’incanto che li avvolge si spezza, il getto dell’acqua della fontana si interrompe di colpo e i protagonisti sono costretti a tornare, bagnati fradici, nel mondo reale che forse si sono dimenticati. È da quel mondo reale che Bianciardi parla al proprio lettore quasi da fratello maggiore condividendo, nelle prime pagine de La vita agra, la sua poetica battagliera:

Farò squillare come ottoni gli aoristi, zampognare come fagotti gli imperfetti, pagine e pagine di avoivoevo da far scendere il latte alle ginocchia, svariare i presenti dal gemito del flauto al trillo del violino alla pasta densa del violoncello, tuonare come grancasse e timpani i futuri carichi di speranza. […] Vi darò la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare […] Proverò l’impasto linguistico […] Ma anche vi darò il romanzo tradizionale, con tre morti per forza, due gemelli identici e monocoriali e un’agnizione. Il romanzo neocapitalista, neoromantico o neocattolico, a scelta. […] Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera -bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”.

Con questo romanzo si passa da Roma a Milano, da un film a un libro che poi diventerà a sua volta un film, da un mondo effimero e ovattato a un altro dove il capitalismo si impossessa e depotenzia tutti gli impulsi sani nel vortice di grana e dané. Aprendo La vita agra ci troviamo in una classica domenica di novembre della provincia italiana, mentre i sagrati si popolano così come i bar nelle vicinanze e un raro sole brilla ma non per tutti. La voce narrante sente improvvisamente aprirsi nella propria testa un buco che ne segnerà profondamente l’esistenza per sempre. Arriva infatti la notizia che i suoi ‘compagni di barella’ (la barella è la lettiga dove i minatori depongono il materiale estratto), da lui frequentati con assiduità e amicizia, sono stati risucchiati dall’abisso.

Tutto parte da un altro buco, da una vicina miniera di lignite, con accenti da cronaca di una morte annunciata. Qui operai mal pagati ma dai tratti eroici sono costretti, in nome di un aumento del tonnellaggio, a estrarre il più possibile perché quello che conta, in quegli inferni sotterranei senza adeguata ventilazione, è l’aumento del rendimento e non la diminuita capacità respiratoria degli uomini. Ma, come spesso accade, la natura, a lungo violata nelle sue viscere, si ribella, la miniera esplode e a uscire da quei recessi non è più la lignite tanto agognata ma i corpi di oltre quaranta uomini che sono le vittime della strage della Ribolla. Perché, ieri come oggi, c’è sempre bisogno di un evento calamitoso perché ci si accorga delle condizioni di chi lavora e, in generale, di un ‘problema’.

Alla voce narrante non interessa porsi il problema quanto sollevarlo. In alte parole: non gli basta constatare la tragedia appena accaduta ma vuole intervenire attivamente perché qualcuno se ne accorga e se ne prenda le responsabilità. Date queste premesse, il buco nella testa del narratore si riempie di una missione: abbandonare la provincia toscana, con le proprie abitudini e l’ormai sclerotizzato sé, per andare in città, nella città per eccellenza negli Anni Sessanta, a Milano. L’intenzione non è solo di fare saltare in aria i ‘torracchioni di vetro’ della sede centrale dell’industria proprietaria delle miniere maremmane, in cui hanno perso la vita, per l’inosservanza delle più elementari norme di sicurezza, i propri compaesani. Ma anche per farsi osservatore attento di un mondo cittadino, di cui ha sempre percepito gli effetti, che sta cambiando troppo velocemente individuando quei fiumi carsici, non per forza placidi quanto semmai nocivi, che scorrono sotto il capoluogo lombardo. Tentativo di vendetta e di veggenza (nel senso di vedere e vedersi più chiaramente) accompagnano l’io narrante de La vita agra nella scoperta di una voragine in cui c’è sempre il rischio del totale disfacimento di noi stessi nell’omologazione.

Nella sua nuova vita a Milano è un uomo solo, come solo è stato il suo autore, non fa vita da sezione, si arrabatta con lavori occasionali di traduzione, diremmo oggi: da freelance, nell’editoria locale per riuscire a avere quanto basti per vivere, centellinando il denaro e impegnando qualcosa al Monte di Pietà. È sempre ossessionato dalle cartelle da battere a macchina commissionate in cui si rivela un traduttore che alterna momenti di aggressività, di partecipazione e di ironia preconizzando in questo l’intellettuale libero nel mondo non libero del neocapitalismo. Due donne gli gravitano intorno: la moglie, rimasta in provincia e percepita gradualmente come estranea, a cui tuttavia manda ogni mese buona parte del proprio stipendio, e Anna, fanatica e settaria ma senza cattiveria dottrinale, con un’assoldata competenza di tecnica insurrezionale, che fa da pungolo a una vita che, a dispetto dei primi moti eversivi, comincia a attirare il protagonista nella nebbia indolente.

La nebbia di Milano che non fa pensare e che omologa e nasconde tutto non priva Bianciardi della necessità di scardinare i nessi del vivere secondo il paradigma altrui. Ne consegue che il protagonista si batta contro la riduzione di un fine a mezzo che aliena, disintegra, spersonalizza e automatizza e porta all’incomunicabilità tra le persone. Mentre in treno, riflette il narratore, si crea solidarietà e, alla fine, ci si conosce un po’ tutti, quando invece si viaggia per lavoro nei tram della città, nel quale il protagonista, forse non a caso, non trova mai posto, si è in compagnia di estranei che non si parlano, anzi di nemici che si odiano. Facendo un passo avanti all’oggi, proviamo a prendere un mezzo pubblico e a guardarci intorno: vedremo gente che, se proprio costretta a parlare, non parla ma bofonchia svogliata e certe tipologie umane che non arpionano la nostra vista perché sembrano fatte tutti in serie. Le stesse che Bianciardi vedeva sul tram.

Il protagonista comprende nella sua permanenza a Milano che non ha senso fare esplodere la cittadella del sopruso, della piccozza e dell’alambicco, ma bisogna allearsi con la folla operaia del mattino, quella che non trovi sui mezzi pubblici ma sui treni del sonno che dalle periferie giunge in città per lavorare, starci dentro, comprenderla, amarla e poi un giorno, insieme, come un esercito di formiche umane darsi alla riscossa contro i torracchioni, contro i padroni mori e ‘timbergecchi’, contro i loro critici tirapiedi, e fare piazza pulita di tutto nel nome della solidarietà e della giustizia.

«…per intendere la città, per cogliere al disotto della sua testa tetraggine il vecchio cuore di cui molti favoleggiavano, occorreva – adesso lo capivo – fare la vita grigia dei suoi grigi abitanti, essere come loro, soffrire come loro. Far vita d quartiere, come suol dirsi, e magari anche vita da sezione, purché capocellula sia non il tosacani parigino, ma il fiero imbianchino che t’ha pitturato la camera, e compagni il garzone del lattaio, il vigile urbano, la massaia, il giornalista che ha una stanza nella pensione vicino a casa tua, purché cellula e sezione coincidano col tuo mondo quotidiano».

Bianciardi, e con lui il suo protagonista, strascica i piedi, si muove piano, si guarda intorno anche quando non è indispensabile. Vive suo malgrado una città che è una grande macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro, che ha il mercato comune in vista e il miracolo in prospettiva. La sua è una storia mediana e mediocre di chi tutto sommato non se la passa peggio di altri che gonfiano e stanno zitti ma che vale la pena di essere raccontata. La vita agra si configura quindi come una cronaca di sentimenti e di fatti autentici e rintracciabili dietro la patina del miracolo italiano ma proditoriamente taciuti, della nevrosi di un’intera città che addiziona progresso e sottrae umanità. Ieri come oggi queste pagine sono «la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla». La diagnosi è poco clemente. È ancora attuale? Scarpiniamo tutto il giorno, facciamo polvere per poi nasconderci dentro, pestiamo i piedi e ci tafaniamo l’uno con l’altro. E, al tempo stesso, ci sentiamo ridotti a tal punto a rotellina indifesa di un macchinario i cui meccanismi non comprendiamo, caschiamo per terra e nessuno ci raccatta, abbiamo spesso solo la forza per non farci mangiare da pesci più grandi e tirare a campare?

Bianciardi ci risponde che non basta scalzare la ‘dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana’, altre ne arriveranno ben più agguerrite, ma la rivoluzione deve avvenire dentro ognuno di noi, occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non crearsi nuovi bisogni nuovi, anzi a rinunciare a quelli che ha. Utopia o esagerazione? Ognuno di noi ha la sua risposta. Ma intanto possiamo seguire il paradigma-Bianciardi e camminare per la nostra strada, fare esperienza di vita, anche se agra. Conoscere tante persone è un fatto puramente ottico, non si ha a che fare con esseri umani ma spesso con gusci vuoti che sono sempre di corsa, che non hanno mai tempo di parlare, che hanno la testa nello smartphone e, al massimo, ti dicono: ‘Fatti vedere’. Sono gli stessi che ad un appuntamento galante chiosano: ‘Ci sentiamo’.

Claudio Musso

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