“Preferisci che sia io a decidere chi di noi due è me? “Sì, signora, vuole decidere per cortesia? Stasera la mia mente non è limpida come al solito”
L. Carrington The acustic trumpet
Lydia Davis, poetessa americana, autrice di racconti brevi, e traduttrice (di autori complessi quali Flaubert o Proust) torna spesso nei suoi saggi (Essays) su una riflessione: se dico la stessa cosa con parole diverse, anche appena diverse, in realtà sto dicendo un’altra cosa (“if you write it so differently, are you in fact saying the same thing?”, si domanda retoricamente in “Forms and Influences I”). In qualche modo Davis non ha mai smesso di sperimentare su questo, costruendo così anche la sua identità letteraria: lavorare sul limite in cui spingiamo la forma (la scelta attenta delle parole, gradazioni infinitesimali, millimetri di parole, la giusta misura tra articolazione e disarticolazione), escludendo o includendo elementi che all’inizio non avremmo mai pensato di usare, per restare fedeli alle intenzioni del testo di partenza nonostante tutto (nel caso di una traduzione) o per cercare di dire cose diverse (rispetto alla tradizione letteraria), e finalmente assumere il rischio senza il quale non c’è letteratura. A Davis quella forma piace condensarla, giocare con la riscrittura, l’ibrido, gli slittamenti di senso, le influenze. E non smettere di cimentarsi su quel fino a che punto si può ridurre un testo, una frase, una miniatura, a patto di continuare a dire qualcosa.
Con Vive!, Alessandra Sarchi lavora sullo stesso limite: sulla capacità della scrittura e delle storie di rigenerarsi, sul rischio di cambiare qualcosa per dire finalmente altro. Così riscrive il finale della storia delle sue (e nostre) eroine ed è come dare loro una nuova vita ed una nuova identità. Le forme che manipola per dirci cose diverse sono i destini, gesti e decisioni di queste donne protagoniste di alcuni dei classici più conosciuti della letteratura universale: da Madame Bovary ad Albertine di Marcel Proust. Con la lealtà di chi su quelle storie ha riflettuto a lungo, impegnata in un insolito restauro (che implica riparazione con tutte le sue metafore), Sarchi sintetizza, scuce, riprende il filo e ricuce ma sostituisce un pezzo. “Sapessi quanto mi sono divertita dopo”, scrive Albertine a Proust. Sarchi non è disposta a “negoziare” con i testi di partenza, vuole allargare “quel mondo possibile” (come lo chiama Eco in Dire quasi la stessa cosa) che il romanzo di partenza sorregge. Disinnescare quei destini così come ci sono stati consegnati e fare di queste personagge dei soggetti letterari. Ribaltandone il destino, Sarchi lo rende visibile, lo sottrae alla pagina mancante, al mistero, un pezzo via all’oscurità “ctonia” in cui le hanno finalmente sprofondate.
Anche Melania Mazzucco nel suo ultimo lavoro Self-portait si avvicina alle vite delle pittrici amate con la stessa fiducia nella riscrittura, mettendo in scena una specie di continua mise en âbime in cui c’è la scrittrice nell’atto di raccontare un’altra donna, una pittrice colta nell’atto di dipingere un altro essere (un’altra sé) che è anche un nuovo corpo di donna. Descrivere un quadro, raccontare la vita dell’artista, ma per creare un nuovo corpo di donna: nascita, infanzia, adolescenza, giovinezza, erotismo, gravidanza, aborto, sessualità, vita di madre, vita da donna sola, vita da moglie, lavoro, vecchiaia. Sono le tappe “cicliche” della vita di una donna ma anche una specie di copro collettivo e composito che in fondo non esiste ma che ci dice ancora che non esiste “a single story”, che quell’unica storia è una menzogna. Uno strano corpo che comincia sotto il segno dell’irriverenza con una scena surreale: una cosmogonia piena di uccelli e di tutte le favole, dominata dalla Giantess di Leonora Carrington, e segue con una neonata in una culla che esiste nello sguardo amorevole e stanco della madre (La culla di Berthe Morisot), una neonata che non è più un modello in posa, una creatura immaginaria, ma sei tu, mia figlia (Simona in fasce di Antonietta Raphael). Quella neonata diventa una bambina che in un gioco di specchi è anche il riflesso della madre (chi è la pittrice? sembra dire Marlene Dumas); poi un adolescente vulnerabile ed impotente (Artemisia Gentileschi), il negativo dello sguardo misogino e sessista che ha riempito il corpo della donna di desiderio maschile (Pauline Booty). La giovinezza può schiudersi come un’epifania “dignitosa” e serena, attraversata da un piacere ineffabile, un corpo snello ed agile capace di prendersi il piacere omo o eterodiretto (Les biches di Laurencin). La sorpresa si sostituisce allo sguardo passivo della donna (madonna) che si accorge di essere incinta, e sul volto trapelano finalmente anche quei sentimenti più neri e meno rassicuranti, di intrusione, imposizione e dolore che fanno pure parte della maternità. L’aborto è l’occasione di una trasformazione, del passaggio terapeutico dalla procreazione alla creazione (per Mazzucco questo accade nell’Ospedale Henry Ford di Frida Khalo). La sessualità si emancipa dalla rappresentazione maschile per assumere i colori cinerei di quel nudo di Romaine Brooks per nulla erotico, quasi asessuato, o le dimensioni esagerate di quell’iris nero, il fiore “umido e ardito” di Georgia O’Keeffe che è soprattutto una consapevolezza nuova di sé. La propria solitudine è portata sulla tela senza complessi; la casa in cui la donna di Bourgeois nasconde la testa è un nuovo centauro; i mestieri tradizionali delle donne (levatrici, balie, sarte, contadine, lavandaie) sono rappresentati con una empatia prima sconosciuta: il filo della biancheria, in una giornata di sole, che non è un quadro naturalista ma c’è anche la vita che sta scappando via, la scena reale che è una visione o premonizione (Emma Ciardi). E la vecchiaia non è più motivo di imbarazzo ma è incisa sulla tela o manipolata fino all’ultimo autoritratto (così diversi quelli di Helene Schjerfbeck e quello di Giosetta Fioroni).
Ne viene fuori un corpo doppio quello contingente, eppure costruito dalla cultura come un destino naturale, e quello impresso ad ogni pennellata dall’artista, ad ogni pennellata dove il colore sta dentro di lei nell’ostinazione, nell’ostilità della società giudicante che spesso le considera dilettanti, nella violenza perché gli altri non ti ascoltano, nella libertà che covano dentro, in quelle loro vite che a volte sono state brevi meteore, perché anche se i quadri finiranno nel fienile, anche se nessuno li comprerà, loro continueranno a dipingere. In una storia circolare in cui l’arte è anche una forma di esorcismo e Giosetta piccola è la bambina che ha messo al mondo l’anziana, non viceversa.
Ciò che accomuna le artiste in questa riscrittura di sé è forse proprio la capacità di accorciare lo spazio tra il corpo e le esperienze, tra la fisicità e l’immaginazione. Questo fare del proprio corpo la mia scultura; “Io sono la mia opera”, scriveva Bourgeois: volendo forse dire che la casa (di Femme-maison ma presente in tutta la sua produzione artistica) che è anche the cell (dal nome della serie di istallazioni), o le tannier (la tana, come considerava la sua casa newyorkese) è il luogo della creazione e fa parte di me. Tornando a Frida Khalo: senza cuciture invisibili, ma tutte a vista, senza rimozioni, lutti o superamenti di possibili traumi (in una storia clinica che deve avere sempre il suo lieto fine) ma piuttosto un ritorno continuo quasi rituale ad esso, qualcosa inciso sulla pelle e sulla tela.
Anche le eroine di Sarchi hanno bisogno di accorciare la distanza da sé, quella in cui le hanno bloccate i loro autori. Ma Sarchi compie un gesto ancora più radicale rispetto a Mazzucco, offrendo loro la possibilità di sovvertire il proprio destino: arrivare vive (e padrone di sé) alla loro morte. Queste personagge sono delle revenants strappate con garbo dalle mani dei loro autori per appropriarsene e farle rinascere, o meglio, per non farle mai morire. Emma scrive una lettera a Flaubert, e impugna quella penna che Flaubert le aveva negato, concedendole solo la passione divorante e sterile per la lettura; o Didone ancora regina, ancora di fronte al mare, perché non si è lasciata sopraffare dall’abbandono di Enea, ma è rimasta indomita come era arrivata.
Nella scorsa edizione del festival di Cannes, il regista russo Kirill Serébrennikov, raffinato direttore di teatro scappato dalla Russia di Putin, ha presentato un film in cui ha immaginato la vita della moglie del compositore Ciaikovskij (La moglie di Ciaikovskij). È stato un destino infelice quello di Antonina Ivanovna Miljukova. A volte il destino anonimo di una donna è ancora più terribile di quello di un personaggio. Serébrennikov dà un destino di celluloide a questa donna così ordinaria, eppure non tanto ordinaria per aver perseverato e sposato quella specie di monumento della Russia che era Ciaikovskij. Per averlo costretto ad un’unione contro natura, visto che lui era omosessuale, in una Russia (e non solo) con i suoi salotti, balli, candelabri e ufficiali in cui il sodalizio maschile traboccava di omoerotismo.
L’unione finisce male: lei sentì la repulsione violenta di lui, lui finì per odiarla a morte. L’alta borghesia pietroburghese e moscovita, le malelingue finirono per darle ovviamente della ninfomane. Lei impazzì miseramente. Era stato un “mariage blanc” ed era divenuto ancora più nero del nero.
Il regista dà un destino ad Antonina, resuscitandola ma per farla morire due volte. Nonostante la compassione e la rabbia e il desiderio di riscattare questa donna, di raccontare la sua storia e non quella del compositore, c’è qualcosa di disturbante, un’esitazione nel modo in cui il regista fissa la protagonista, la “inquadra”, esagerandone la cecità, il fanatismo, l’erotismo. E quella mosca nera che attraversa la pellicola, che ronza nella stanza da nubile di Antonina, che ronza nelle stanze vuote dell’appartamento che avrebbe dovuto condividere con il marito. Quel punto nero che Antonina osserva e scaccia è la sua pazzia, che ronza nella sua testa, che era già lì, era stata sempre lì, come una tara.
Sarchi per fortuna non ha esitazioni. Non fissa le sue protagoniste, non le incornicia in un nuovo frame, appena diverso dal precedente, ma contratta con la morte, le immerge nel calderone dove ribollono destini e parole per riportarle fuori a rimestare la propria carne, vive, ancora più vive. “Mi sentivo molto bene, e ritemprata, dopo il brodo di caldo, e in qualche modo anche profondamente sollevata…allacciandomi il mantello di montone andai su per la scala di pietra”, scrive (Leonora Carrington sempre nel Cornetto acustico).
Silvia Acierno
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