«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». In un tempo primordiale al di fuori della creazione, un tempo fuori dal tempo, secondo l’evangelista Giovanni la manifestazione divina della volontà generatrice è logos. Parola, relazione, amore. I primissimi versi di Mario Luzi, quelli del principio, dell’arché della sua poetica, gridano già con immatura consapevolezza il loro anelito al divino, che risuona in una esigenza dell’oltremondano lucida, ma dalla direzione ancora difficilmente decifrabile: «Lasciate il vostro peso alla terra / il nome dentro il nostro cuore / e volate via, / quaggiù non è vostro l’amore […] / Noi non amiamo che quella vanità che ci addolora, / vi porta di ora in ora leggere / come un lume che non si può tenere / ma solo morirne. Come cere colano intorno le stagioni, / e noi andiamo con la volontà di Dio dentro il cuore». Canto notturno per le ragazze fiorentine apre La barca (1935), prima raccolta del giovane Luzi. E nel cercare di indagare da dove viene lo slancio poetico, è lo stesso Luzi a ricondurlo all’intima immediatezza dello schema poesia-relazione: «Quando ha scoperto la poesia? Quando si è sentito poeta? – È difficile da dire, è un po’ come domandarsi quando si è scoperto di voler bene a qualcuno».
Il percorso del poeta e quello del cristiano hanno spesso in comune una più o meno sincronica condizione errante che porta a un’avversione, se non a una vera e propria impossibilità, per la linearità. L’essenza stessa di questi due percorsi che l’essere umano compie desiderando un qualche aldilà possibile, risiede nell’esplorazione senza condizioni. La parola poetica di Luzi, che nasce nella rarefazione di stampo ermetico, va incontro a graduali cambiamenti e a un primo momento di silenzio negli anni della guerra.
Un silenzio necessario, che qui è disperato: assenza di voce come assenza di speranza. Il faticoso superamento passerà dalla inevitabile concretezza degli anni Cinquanta e poi da una pluralità di voci che l’io incontra nella raccolta cruciale Nel magma (1963): drammatica esperienza di transitorietà, «dedalo già buio» che occlude un ritorno a Dio, ma che lo richiama come appiglio, come certezza nonostante tutto. Il contesto richiama quello intensamente esistenzialista del Purgatorio dantesco, e la domanda riecheggia senza risposta: «Non è più qui, ma dove?» mi domando / mentre l’accidentale e il necessario / imbrogliano l’occhio della mente / e penso a me e ai miei compagni, al rotto / conversare con quelle anime in pena / di una vita che quaglia poco, al perdersi / del loro brulicame di pensieri in cerca di un polo. / Qualcuno cede, qualcuno resiste nella sua fede tenuta stretta».
L’umanità, che fino a questa raccolta rappresenta un materiale impedimento nella strada verso il divino (e di riflesso anche verso la poesia), trova invece la sua esaltazione in Sotto specie umana (1999), che non a caso si configura come laudes creaturarum, con un esplicito richiamo al Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi. Questa tappa è fondamentale perché Luzi riafferma la fides (fede e fiducia) nel Verbo. Ha acquisito, in controtendenza con i contemporanei, la consapevolezza che seppur limitante, la parola è quel necessario canale di comunicazione a lungo anelato, ma è anche qualcosa di più: è forza creatrice che adesso il poeta fa propria, e che sperimenta con tono elegiaco e nuova vitalità di immagini e visioni. Così come «la sora nostra morte corporale» è il necessario e ineludibile passaggio per trovare «ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male».
Il naturale seguito è l’ultima raccolta pubblicata in vita: Dottrina dell’estremo principiante (2004), con la quale Mario Luzi giunge se non alla definitiva, almeno alla sua personale estrema comprensione del legame con Dio e con il cosmo: i suoi componimenti divengono creaturali, tanto che vi risuonano a tratti proprio quegli echi creaturali dell’amico poeta Danilo Dolci e del filosofo francese Teilhard de Chardin; e ognuno degli elementi del cosmo palesa la sua sacralità nell’eterno fluire celeste e terrestre. Il rinnovato messaggio di speranza che domina l’opera ha origine nel riconoscersi finalmente parte di una logica universale: quella di Dio. Emergono nuovi interrogativi, ma adesso si fondono con la serenità di una fede luminosa perché forgiata nelle prove del secolo breve e costantemente messa in discussione in una vita aperta al mondo.
È in questo momento, al limitare della sua esperienza terrestre, che Mario Luzi ha il coraggio e la capacità di intuire finalmente il divino prima del Verbo, prima cioè del principio stesso. L’amore di Dio nel silenzio, Dio nel silenzio. Non c’è più l’umano timore dell’abbandono o dell’assenza, ma come scrive Paola Baioni (in «Vola alta parola». Il logos si è fatto carne) «si assiste a una sorta di discioglimento del discorso, fino a diventare solo un miscuglio di suoni e di rumori che terminano nel silenzio, che è la voce di Dio»: «Infine crolla / su se medesimo il discorso, / si sbriciola tutto / in un miscuglio / di suoni, in un brusio. / Da cui / pazientemente / emerge detto / il non dicibile / tuo nome. Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce».
Lorenzo Gilardetti
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