Numero 15 | Dicembre 1998

Era un’estate caldissima, come spesso a Napoli. Forse ero da un’amica. Forse qualcuno mi telefonò. So che dalla casa in cui ero mi ritrovai in un’altra casa dalle cui scale era stato trasportato il corpo esanime di mio fratello. O forse ero in casa? Forse seguimmo con la nostra macchina l’autoambulanza che sfrecciava nel buio della città piena di vivi piena di morti piena di cibo per dinosauri insetti e lampadine? Ancora oggi le sirene delle autoambulanze sono un rumore che riconosco tra mille, che fa ancora vibrare i miei nervi il mio sangue le mie viscere.

Era il 1970. L’anno dopo morì mia madre. Forse non riusciva a sopportare la vita senza la compagnia di quel primogenito, tormentato figlio. Molti anni dopo ho potuto cominciare a scrivere Fermata Km. 501, in cui mio fratello si chiama Ermanno, dal tedesco Er Mann, cioè Signore Uomo. Dovevo pagare un debito a quanto di nordico c’è in me, perché credo che ogni napoletano porti nel suo DNA una sorta di punta estrema che fa convogliare in uno stesso fiume l’astrattezza intellettuale e morale del Nord con la visceralità, il senso biologico del flusso della vita che è del Sud. Inoltre io mi portavo dentro la tragedia greca e il senso del teatro (il Coro dei turisti di Km. 501). Forse, il motore primo del libro è stato quello di saldare un debito con mio fratello e col passato, giacché ogni libro è un debito che si salda nei confronti dei vivi, dei morti, delle cose.

Nel risvolto di copertina originario, poi sostituito, scrivevo «La grande città di Napoli è una città assolutamente circolare chiusa dalle cinta delle mura antiche… (qui già c’è la circolarità del tempo e la convivenza di vivi e morti)… Era l’anno millenovecentosessantotto… e Ermanno cadde piegando la fronte bellalta e superba… ». Per una strana coincidenza astrale, le due cose coincisero: la sua morte, la mia morte e quella di una generazione: … «la città di Napoli era assediata dalla polizia… Questo era lo scenario attorno alla privata morte di Ermanno e tale restò anche dopo che la città si chiuse sui suoi figli morti chiudendo le mura sul mistero circolare di un uomo che muore. Nell’assoluta circolarità della storia che lo racconta e che gli dà onorata sepoltura». Certo, pensavo ad Antigone e le alte mura mi dovettero sembrare quelle di Tebe. Tuttora mi sembra che ci sia un legame tra la sua morte, che in realtà avvenne per un ictus cerebrale, e le battaglie che si svolgevano per le strade, come se Ermanno fosse morto sia per sangue interno (l’ictus) sia per sangue esterno (un sanpietrino che gli colpì la fronte).

In realtà nessun libro assolve i suoi debiti. Ogni libro è un fallimento, come diceva Faulkner, solo una tappa sul cammino di una strada interminabile. Con ognuno cerchiamo di metterci in pari con qualcosa che non quadra.

Portai il manoscritto all’editore. Si pose il problema del titolo. Fu scartato quello originario: Napoletana Ballata. Un giorno incontro degli amici che dicono «Siamo andati in un ristorante che si chiama Km. 501.» Questo è il mio titolo pensai. Mi dava l’idea di un viaggio che andasse un poco oltre la meta, oltre la soglia tra la vita e la morte: i fatti di questo libro sono solo due morti. Il resto è tutto un viaggio intorno per cercare di sfondare la barriera della morte. Quando ho fatto io stessa l’editing per la pubblicazione ha spostato interi capitoli. Il che vuol dire che se questo libro venisse letto dalla fine all’inizio, non cambierebbe molto. E questo dà l’idea di cosa è il tempo per me. Per prima cosa, un chiodo fisso. In secondo luogo, una dimensione in cui mi addentro risentendo a un tempo della ferma atemporalità della tragedia, della relatività Einsteniana e della ipotesi di mondi paralleli in cui ci si può prefigurare che un altro Io ha già fatto o farà la cose che io non ho ancora fatto o farò. Non c’è niente di mistico nel mio far convivere vivi e morti. Non avrei il tempo di aspettare la resurrezione delle anime. Dovrei essere già catapultata al momento in cui sono risorti i corpi. Fermata Km. 501 è un libro pieno di corpi. Anche la Montagna, il Vesuvio, lo Sterminatore, è un corpo, pieno di sangue e di lava di umori capricci di liquidi e pietre. Questi diversi vissuti dello spazio tempo, ora immobile e pietroso, ora vorticoso e fluido convivono in me col fragore di una stridente battaglia. Quando scrivo, mi pongo sempre sulle soglie di un enigma e non c’è niente di più enigmatico della morte. Niente che in modo così terrificante ponga di fronte al perché e al percome dell’universo, sia che si tratti di interi popoli che scompaiono per guerra per fame per devastazioni per cicloni per inondazioni per terremoti o di tuo nonno tuo zio tuo padre tuo fratello tuo figlio che se ne vanno verso nessundove. La morte ci pone di fronte allo zoccolo duro della materia. Fa parte del selvaggio devastante amoroso ciclo naturale degli eventi del quale facciamo parte come minuscoli granelli di polvere e respiro. Avevo scritto «… data la fondamentale distorsione che nasce dal confondere continuamente i vivi coi morti e i presenti con gli assenti. Ma questa distorsione riguarda solo me, solo noi, o anche gli antichi non sapevano esattamente quando è che Ettore è morto e se è veramente morto? Non sono stati forse loro i primi a circondarsi di morti? Le costellazioni sono i morti. I ruscelli sono i morti e gli alberi. Forse la Città dei morti è la prigione dei morti. Forse gli Etruschi mentivano meno dei Greci e dei Romani. I morti li mettevano sotto vuoto. Con tutto quello che ti serve: da bere da mangiare e oro e suppellettili: purché tu non torni… E, non permettendo ambiguità, si stende sull’Etruria un vero dominio: il dominio non esorcizzato della morte… preferisco il mio male e la mia bugia fondamentale: io preferisco dire che la vita è morte… » Non so se la vita è vita e la morte è morte o se·la vita è morte e la morte è vita, se si muore una o mille volte. Sia io che la Fermata Km. 501 abbiamo dentro il suono di un universo vivico prolifico generante devastante ingordo tranciante azzurro macellaio.

 

«Anche le case prendono la forma della solitudine. Se in una casa non entra più nessuno per molto tempo essa si stupirà che qualcuno entri di nuovo e le mura si raggrinzeranno confuse o si cupiranno all’abbraccio dell’amico che finalmente vedo. Dopo tanto tempo.»

 

Marosia Castaldi è artista e scrittrice. Tra le sue opere i racconti Abbastanza prossimo (Tam Tam, 1986), Casa idiota (Tringale, 1990), Piccoli paesaggi (Anterem, 1993); i romanzi La montagna (Campanotto, 1991), Ritratto di Dora (Loggia de’ Lanzi, 1994), Fermata Km. 501 (Tranchida, 1997); il saggio La casa del Caos (in “Punteggiature”, Holden Maps, Bur, 2001); le prose In mare aperto (Portofranco, 2001) e La fame delle donne (Manni, 2012). Per Feltrinelli ha pubblicato Per quante vite (1999), Che chiamiamo anima (2002), Dava fine alla tremenda notte (2004), Dentro le mie mani le tue (2007) e, nella collana digitale Zoom, Paesaggio della stanza (2012) e Vecchi amanti a Milano (2013).

 

Marosia Castaldi con il suo romanzo Per quante vite è anche nella lista di Simone Battig sui migliori libri italiani dal 1946 a oggi.

 

Il libro nel 1998

Fermata km 501 di Marosia CastaldiMarosia Castaldi 
Fermata km 501
Giovanni Tranchida Editore 1997

pp. 134
L. 25.000

Il libro attualmente è fuori catalogo.
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