«È una storia da un soldo, e la conoscono tutti, ma sulle montagne degli Appennini c’è ancora qualche vecchio che sa com’è andata per davvero. E te la racconta, tra l’odore di grasso dell’inverno, e le coperte sulle spalle, in cambio di un bicchiere o di un toscano».
Questa storia si svolge nel luogo più basso di un paese dell’Appennino toscano, nel fondo di tutte le cose, in una casupola modesta fatta di tufo e povertà che è sospesa sull’orlo di un abisso in attesa che arrivi la sua fine o con una frana o con l’abbandono. Lì, lontano da tutto e da tutti, vive un vecchio falegname dal fare solitario e dall’aria inselvatichita sul quale le dicerie di un paese untore lo hanno già eletto a reietto e pazzo del circondario. Lo chiamano ‘mastro’ solo per scherno e ‘Geppetto’, lui che all’anagrafe fa: Giuseppe, per bestemmiargli il nome del santo da cui deriva, che peraltro se ne intendeva come lui di legno, perché da quelle parti un nome, un nomignolo, ci vuole per individuare e deridere costantemente chi è considerato estraneo alla comunità.
E mentre la fontana nel centro del paese rimane sempre secca, a simboleggiare l’aridità delle persone che popolano quelle valli, Mastro Geppetto passa le sue giornate vivendo di avanzi, di sguardi sprezzanti e di dispetti dei bambini. Le sue uniche distrazioni sono un dialogo con un grillo canterino, suo compagno di esilio, e una donna velata che scende ogni tanto dalle montagne con una cesta di fiori da vendere, unico contatto piacevole con il mondo esterno, a cui sorride come un vecchio gentiluomo. In fondo a chi, come Geppetto, vive tra le fila degli ultimi tutto questo basta, senza nostalgia per luoghi che non ha mai visto o per quello che sarebbe potuto essere ma non è stato. Si sente a suo agio nell’immersione nel niente, che a volte può dare tutto, nella fatica con cui ci si guadagna, ad ogni sorgere del sole, un nuovo respiro come sgambetto dispettoso da fare alla morte che lo attende, e nella libertà di muoversi nei boschi e parlare con gli alberi, unendo i reciproci respiri e immaginando tutto il resto.
Ma ben presto il paese del fango, un presepe abitato da piccoli uomini (non di statura) diventa una macchina del fango: non è sufficiente infatti che il falegname sia tra i dimenticati e gli emarginati ma bisogna farlo oggetto di una burla che ha l’odore della bischerata, il gusto della ferocia e l’aspetto di un diversivo alla noia. Così sulla misera vita di Geppetto passa una stella cometa annunciatrice di novità. Riceve in regalo un pezzetto di legno, si dice dai poteri magici, da un altro falegname, in combutta con il farmacista e il parroco, i tre re magi portatori di scherno e scherzo nel paese. E da quel pezzetto di legno, in fondo di scarsa qualità, Geppetto – riappropriandosi del proprio vecchio mestiere – crea Pinocchio. Quest’ultimo è il figlio che non ha mai avuto, il prolungamento di sé per il futuro, la possibilità di pensarsi finalmente al plurale, la cosa più preziosa che ha per chi non ha niente, benché Pinocchio rimarrà per tutta questa storia un burattino senza vita ma capace di ridare calore a un uomo destinato a invernarsi.
Dati questi antefatti, non si ravvisa nel testo solo la metamorfosi di Geppetto nella sua rinnovata forza creatrice e nel sentirsi padre o nella calda illusione di esserlo, lui che è sempre stato slegato dal tempo degli altri, ma anche la sua inconsapevole premonizione di quello che dovrà subire quando dipinge su una parete della propria casa un lunga linea ininterrotta e, giocando con l’ombra più chiara lasciata sul tufo dallo stipo, ne ricava un contrasto di tinte e velature che fanno pensare allo spazio vuoto del cielo nella parte di sopra e a un mare scuro e burrascoso in quella di sotto. Perché questa storia, che forse in pochi sanno, misura un nuovo orizzonte di altezze e di libertà (che rimangono nel possibile) ma soprattutto di bassezze e reclusioni (che diventano realtà), una sorta di via crucis che Geppetto dovrà affrontare nel momento in cui, burla chiama burla, gli faranno sparire, e non una volta sola, il figlio e dovrà inseguirlo in ogni dove per non ripiombare più in quella condizione in cui nessuno filo di refe lo lega più al mondo.
Mastro Geppetto, pubblicato da Sellerio nell’autunno 2021, è forse il libro più personale di Fabio Stassi perché in esso confluiscono non solo i ricordi di figure che ne hanno punteggiato l’infanzia, come Pinocchio, ma anche l’esperienza dolorosa di uno zio amatissimo che in breve tempo è entrato in cortocircuito privando l’autore del suo affetto. Allontanandosi da Collodi e da tutto il canone della letteratura occidentale, nel quale è solitamente il figlio a cercare il padre, Stassi scrive un libro, una sorta di vangelo apocrifo, che si legge come una favola inversa, si ascolta come una musica mesta e inconsolabile che risulta tanto più vera quanto più sfregiata dalle sue stonature.
Le sue pagine sono irrorate da una prosa prismatica: non ha paura di tacere, di infervorarsi e di commuoversi; racconta in modo nuovo, con delicata creatività e abile pregnanza, una vecchia favola, mantenendo l’ordito collodiano dei personaggi nascosti in nuovi abiti contemporanei; si priva, come la vecchia pelle di un serpente, dell’elemento fantastico per portarci dentro una microstoria che parla al nostro tempo perché vive nel nostro tempo; come un estuario accoglie e omaggia impressioni di letture pregresse rievocando atmosfere calviniane nelle quali i ragni farebbero da qualche parte il proprio nido (basta crederci) e dostoevskiane dove uomini con le catene ai piedi si improvvisano teatranti portatori di luce (basta farli parlare). Stassi inoltre trasfonde in questo libro la lezione di Sciascia che invitava gli scrittori ad essere realistici anche quando sembrano onirici. Perché la storia di Geppetto si fa sismografo della realtà dei tanti zeri del mondo che non hanno voce e che ci passano accanto. Mentre spesso ci voltiamo dall’altra parte.
Ma soprattutto è un libro sul linguaggio e sulla sua importanza come una bussola. Geppetto per buona parte di questa contro-storia parla poco e male, si esprime con un lingua incomprensibile dovuta all’età e ai vari traumi, fino all’afasia di chi non riesce più a farsi capire dagli altri. Questo fatto determina in apparenza la sua sconfitta nella vita e un facile esca per nuove burle e soprusi ad opera di finti ciechi con folti baffi grigi dall’aria felina, finti zoppi ma dagli scatti volpini, oltre che della gente del paese che nell’osteria arrota le proprie incursioni nella vita già lacera di questo uomo che ha perso la sua giacca di fustagno. Tuttavia Geppetto non molla, anche quando è solo più un involucro dell’uomo che è stato, accetta le percosse materiali e morali, preso com’è dalla ricerca di quel figlio arrivato per caso. Nelle sue traversate tra paesi e boschi, tra realtà e illusione, egli incontra altri solitari che hanno le parole, spesso di segno opposto, che comunque a lui mancano. Lo confermano il burattinaio sfuggente dalla lunga barba nera, il custode di una casa di morti, le monache di un ospizio, un contadino solitario preoccupato solo delle sue tagliole, i minatori che lavorano nelle budella del mondo, un teatrante dalla coda luciferina. Per tutti loro, con i quali incrocia i propri passi e inciampi, Geppetto ha una sola parola: grazie.
E mentre Pinocchio passa di mano in mano, Geppetto finisce nella pancia di un pesce-cane, o meglio: di un capodoglio, ‘il capo del doglio’, specifica Stassi, il termine del dolore, un’altra destinazione, l’ultima, lontana da tutto e da tutti, un altro avamposto aggrappato alle spalle del mondo, senza diventarne un peso, in cui egli, creatore di mondi, può ritrovare finalmente le parole, le sue parole che ne cementino l’identità e la dignità, e un pubblico disposto ad ascoltarle. Disobbedendo ancora una volta al proprio destino e riprendendosi la propria rivincita sulla vita.
Claudio Musso
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