Io non credo alle coincidenze o alle casualità, credo alle connessioni.
Ecco perché qui e oggi mi è venuta voglia di raccontare di due libri pubblicati a quasi cinquant’anni di distanza uno dall’altro.
Mi è parso, leggendoli di seguito in pochi giorni (non per caso appunto ma guidato da una vecchia  ricerca portata a termine e da una segnalazione che mi ha incuriosito nelle nostre liste di libri straordinari), che queste due scritture dense e schiettamente femminili per sensibilità e sguardo avessero in comune alcuni tratti ma, più di ogni altra cosa, un’urgenza fiammeggiante: dare voce, un mormorio e un urlo allo stesso tempo, ad una visione intima, a suo modo rivoluzionaria nella semplicità dell’ammissione, del mondo e dei rapporti umani negli occhi e nel cuore delle donne. Ho trovato in questi due libri assai diversi per tono, scrittura e idea un’intenzione comune, un’intenzione nuda, limpida, conturbante e avvolgente, che sa di ricerca e conforto, di un abbraccio che viene da lontano, del vento freddo di acqua e sole nelle fragorose mattine in spiaggia dopo la tempesta.
In entrambi i testi conosciamo le protagoniste sin da bambine, legate a madri che appaiono come tigri di carta, donne indipendenti e tanto forti da crescere da sole le figlie, ma in fondo donne smarrite nei vuoti enormi che sentono nei confronti dei loro uomini assenti. È da questo tratto comune che le due storie prendono avvio per diventare acute storie di formazione, di bambine che diventano ragazze e che infine, alle soglie di un’età ideale che sta nella loro mente impressa come un codice genetico, cercano di trasformarsi nelle donne che vorrebbero essere: libere e appassionate, illudendosi di chiudere una buona volta e per sempre le cicatrici dell’anima.
Il primo di questi due libri, La ragazza di nome Giulio di Milena Milani, esce nel 1964 per Longanesi (ora edizioni SE 2017). La protagonista Jules, figlia di una coppia randagia e anticonformista nonché benestante, porta il nome del padre morto e cresce con la madre trasferendosi di casa in casa, di città in città, scoprendo lentamente la sua diversità, il suo essere sospesa in un tempo di sogni e passioni molto fisiche che le sembrano precluse da una società rigida e compartimentata in un’epoca permeata dal fascismo e da una guerra incombente ma lontana dagli occhi.
Dalle città al mare alla montagna i luoghi sembrano respirare con Jules che cresce e scopre le debolezze, l’assenza e le crisi di una madre devota più ai ricordi  che al futuro che le attende, che vede la figlia come uno specchio del tempo perduto.
Nella lingua sensuale della Milani si può trovare il senso di una natura nascosta e non riconosciuta delle donne, di uno smarrimento e uno squilibrio conseguente nell’amore, negli affetti e nella sessualità mai appagata e semplice.
La ragazza di nome Giulio arriva nelle librerie e viene presto sequestrato per oscenità. Oggi ne rideremmo visto l’oscenità quotidiana che viviamo per cose ben più intollerabili. La Milani, artista che con il suo spirito precorre i movimenti femministi e il ’68, viene processata e, dopo una prima condanna, alla fine assolta.
Il valore dell’opera sta invece proprio tutto in Jules e nel suo mondo, nella sua ricerca frustrata di una felicità che nemmeno lei, a partire da quel padre assente perché morto quando lei è troppo piccola per poterlo anche solo ricordare, sa da cosa potrebbe essere costituita, ma che in qualche modo risiede in un principio di completezza femminile nel maschile, quasi una ricerca ossessiva di uno yin e yang attraverso i corpi  e il loro contatto, senza che questa compenetrazione risulti mai decisiva per sentirsi completa e viva.
Jules è una ragazza, questo si potrebbe dire oggi di tutto il romanzo.
La Ragazza di nome Giulio, la sua storia di sposa promessa, declina infine bruscamente, sciogliendo tutta la tensione narrativa in un finale  inaspettato che sembra anticipare tutta una certa narrativa successiva, prevalentemente maschile tra l’altro, e non vorrei dire di più.

Cinquant’anni dopo, in tempi e luoghi assai diversi e infinitamente più liberi (e proprio per questo forse ancora più complessi) Laura Lamanda ci racconta un’altra storia che principia da un’assenza negli occhi di una figlia, l’assenza di un padre che non è morto ma che non è lì per la sua bambina, che arriva e scompare, che parte e ritorna, ma anche quando c’è è come se non ci fosse.

“Non siamo come questa porta, che ogni mattina sta lì nello stesso bellissimo modo e io per questa sua costanza la amo. No, noi a volte scompariamo, anche solo per poco, anche solo per sentire che è possibile, che quando vogliamo smettiamo, e cosa facciamo di preciso durante queste pause è per gli altri un mistero.”

Aeroracconto dell’amore fatale (Fandango 2012) è una delicata, divertente e tuttavia disperata richiesta di attenzione e conforto. È una storia per parole e immagini che, molto più di certi romanzi recentemente celebrati anche se infarciti di luoghi comuni ed espressioni alla moda, riesce a comunicare in maniera dirompente il significato del sentirsi stranieri a casa propria, e lo fa soprattutto nella prima parte del libro grazie a scelte misurate e permeate di autenticità che riverberano potenti in un’esperienza infantile.
Il compendio fotografico è la vera forza e la vera narrazione del libro e l’alternanza di scrittura e immagini produce un’estetica sofisticata e calorosa, lineare ma al contempo straniante. Assistiamo quindi, come una messa in scena, alla candida confessione di un’emotività stravolta che si contiene nello spazio d’ordine delle parole, sfarfallando nelle immagini, e qualcosa ci prende per mano accompagnandoci attraverso variegate sensazioni di abbandono che tutti abbiamo provato.
Siamo di sicuro distanti dal romanzo di Milena Milani per quanto riguarda la scrittura ma L’Aeroracconto vola per come è stato pensato e bisogna tener presente che il rischio narrativo in un libro di immagini parole è sempre altissimo. Il libro della Lamanda è invece un’intenzione riuscita e sorprendente quindi, perché come dicevo all’inizio, l’urgenza si sente ad ogni pagina, non ci sono sotterfugi che non siano quelli dell’estetica che si insinua in noi e si apprezza la lettura e la visione proprio come se ci si ritrovasse in un supercinema a noi riservato, da dove ad un certo momento sarebbe necessario lanciarsi nell’aria, e forse quest’ultimo balzo manca.
L’aeroracconto dell’amore fatale mi ha affascinato mentre La ragazza di nome Giulio è uno di quei libri sepolti che tutti dovremmo leggere, per la bellezza che cova sotto la cenere e il tratto che incide la pietra.
Io sono un tizio che non ha molti libri scritti da donne tra i suoi preferiti, sono un losco figuro che per motivi diversi si è sentito irretito da queste due storie e si è stupito per la  loro consonanza a distanza di mezzo secolo. Ho sentito un amore vero, un amore per la vita, e non è mai cosa banale in un libro.
Vi consiglio quindi di leggere entrambi questi libri come ho fatto io, uno di seguito all’altro, nell’ordine in cui ve li ho illustrati, lasciandovi portare da quanto sta in voi. Per quanto sta in voi.

Simone Battig

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