Ohio di Stephen Markley, trad. di Cristiana Mennella, Einaudi 2020

(Hanno letto e scritto del libro: Palmina Colella, Alida Melacarne, Emma Cannavale, Emma Dovano, Verdiana Teresa Mastrofilippo, Elisa Bedoni, Sissi Patruno, Carmelo Vetrano, Luca Cammisa, Marica Ciccarelli, Manuela Montanaro, Rossella Palloni, Mayra D'Aprile, Chiara Damico, Rosa Dibattista, Maria Pilolli, Federica Campi, Carola Maselli, Margherita Lomangino)

Casa di Scrittura è il luogo, reale e virtuale, dove nascono laboratori e storie inedite sotto la cura di Alessandra Minervini. Se vi piace leggere e scrivere seguiteci sui nostri canali social e sui siti: casadiscrittura.it e alessandraminervini.info.
Dopo la lettura collettiva di Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin, e/o, il gruppo di lettrici e lettori di Casa di Scrittura ha letto durante il mese di agosto, Ohio, un esordio americano accolto in ogni Paese, compreso il proprio di origine, come uno dei casi letterari dell’anno. Ci siamo avvicinati dunque alla lettura partendo dal fatto che avevamo davanti un romanzo che ha fatto parlare, ha scosso i lettori nel bene e nel male. Ci siamo concentrati su alcuni aspetti (senza spoiler tranquilli!) che più di altri esibivano unicità e forza: i luoghi e la voce narrante.

Buona lettura!

Non aveva previsto che sarebbero diventati vecchi o malati o tristi o sarebbero morti. Non aveva mai pensato che avrebbero avuto paura”.

Un feretro senza salma, la bandiera americana che vola via e si impiglia sulla cima di un albero, una cornacchia che affonda il becco, cosparso di glassa rossa e blu, in una torta a forma di bandiera spiaccicata sull’asfalto. Nel prologo di Ohio le prime immagini illuminano, con una luce cupa, una parata per una “patria immaginaria” dalla quale nessuno è escluso, che guarda impotente e costernata le Stelle e Strisce – il sogno americano – portate via dal vento. Come quel feretro, Ohio è un luogo immobile eppure è culla e detonatore dell’intera vicenda, un luogo da cui scappare, per poi tornare a farci i conti.
L’immobilità di New Canaan, cittadina che non esiste nella realtà ma che ci si ritrova a cercare su Google Maps per come viene raccontata, come fosse una serie di fotografie di Robert Frank a colori, si anima attraverso i movimenti della luce incontrollata che la abbaglia, del buio che la fa sprofondare nell’abisso, della pioggia violenta che si abbatte sui segreti del passato, delle stelle che brillano troppo forte, come sanno brillare in certi angoli del sogno americano.
I luoghi del romanzo sono quadri senza cornici in cui rimangono incastrati i ricordi; rappresentano la possibilità di affrontare le cose in sospeso o, peggio, l’impossibilità di evitare di ritrovarcisi, prima o poi, faccia a faccia. Il cielo è lo specchio degli umori, cambia sfumature a seconda dei pensieri che appartengono ai personaggi ma leggendo si impossessano di noi diventando i nostri luoghi, i nostri ricordi. Ricordi che riemergono, si intersecano e fanno luce in modo non lineare perché, come afferma il narratore nel prologo del romanzo – come fosse una dichiarazione d’intenti dell’autore – “il concetto di linearità non esiste. Esiste solo questo sogno collettivo scatenato, incasinato, incendiario in cui nasciamo viaggiamo e moriamo tutti”. New Canaan, nella sua decadenza, racchiude le derive che hanno preso le vite di tutti, lasciando ben poco spazio all’immaginazione: non c’è assolutamente nulla che sia andato come poteva andare. È tutto caduto a pezzi. Una terra promessa smascherata, dove le principali fabbriche hanno chiuso, le grandi catene e multinazionali hanno sostituito i piccoli negozi e inglobato le aziende agricole, dove non passano più treni sui binari, dove impazzano pignoramenti e sfratti e dove la gente annaspa tra lavori onesti e smercio di metanfetamina. Questa è la “nuova Canaan” che forse non ha più niente da promettere. E la gente può solo stare lì a guardare.

Ohio è il romanzo dei grandi temi americani: il terrorismo, la religione, la disoccupazione, le droghe, le armi, il sesso. Markley ci trascina per le strade dell’America vera, quella in cui le stelle brillano solo nel cielo, mentre sulla terra le persone lottano costantemente per i propri diritti.
Nell’Ohio che rappresenta la provincia americana della fine degli anni 90, vissuta tra insegnanti, allenatori, chiese, famiglia nazionaliste e puritane, crescono nove tra ragazzi e ragazze. Dopo il diploma spariranno quasi tutti dalla cittadina in cui sono nati.
Uno di loro ci tornerà dall’Iraq, nel 2007, in un feretro avvolto nella bandiera americana, il fantasma dei sogni infranti dell’America e di tutta un’adolescenza che innesca il racconto doloroso e amaro dei suoi amici, forse non del tutto sopravvissuti alla resa così acuta dell’infanzia e di quello che ha rappresentato: la speranza, l’amicizia, lo stupore.
Da adulti la nostalgia fa dimenticare lo squallore dei luoghi in cui si è nati. Il ritorno contemporaneo e quasi casuale di quattro di loro nella cittadina in cui sono cresciuti, svela la realtà di quanto vissuto in maniera tragica e inaspettata. Gli adulti seppelliscono sotto spessi strati di sensi di colpa e di inadeguatezza esistenziale la reale e vissuta drammaticità di quello che è stato per loro crescere.

“Le cose non vanno mai come credi, tantomeno come desideri.”

Tutti i personaggi hanno un conto in sospeso col passato che cercano in qualche modo di far tornare, ma senza riuscirci completamente. Tutti vogliono andare via da Ohio eppure Markley li zavorra, “cercarono di zavorrare la sua anima“, li rimpinza al punto da obbligarli a stare sulla terra polverosa e dura delle proprie radici.
Il romanzo è massiccio e audace, carico di dialoghi che scivolano dal passato al presente senza soluzione di continuità, come i personaggi così drammatici e così credibili. I movimenti di spazio e tempo sono anche quelli interiori dei personaggi magistralmente descritti dall’autore.
Si ritrovano adulti a fare i conti con quello che sono stati da adolescenti, quell’età in cui “erano stati giovani e basta, i litigi non duravano, i peccati erano scevri di qualsiasi tipo di cattiveria”, quell’età dell’innocenza che tanto innocente non è, in cui la popolarità è “un frutto succoso e scivoloso”, pericoloso da assaggiare.
Eppure è proprio negli anni della giovinezza che sono stati piantati i semi del destino di questi uomini e donne, quel destino “che ti fa fare cose impreviste”, che rende “deboli da impazzire” fino a confondere l’amore con la violenza. I nomi di Bill, Ben, Rick, Stacey, Lisa, Kayley e gli altri sfilano insieme a un feretro vuoto, altri feretri vuoti a loro volta, morti nei sogni e nelle ambizioni oppure solo desiderosi di fuggire via di lì, da quell’Eden maligno che ha concepito le loro vite.
Ogni vicenda viene raccontata più volte da un punto di vista diverso, che dona dettagli nuovi e inattesi. Personaggi amati da un protagonista, diventano odiosi visti da un altro.

Muovendosi sulla scacchiera del tempo, come pedine di un gioco efferato, ricostruiscono le vicende, i segreti, le menzogne che hanno segnato le loro vite.
Ogni capitolo è la voce di un protagonista, ogni voce un tassello per ricostruire la verità. Si sentono gli echi di un’America di quel “mercoledì da leoni” ugualmente saturo di sogni e disperazione che sollevano il velo sulla violenza e sullo stato di prostrazione psicologica che serpeggia nei licei americani. La narrazione dei luoghi conduce in ogni dove, compresi i pezzi dei corpi, o i corpi a pezzi, dei protagonisti che si muovono in modo corale e storto, restando sempre accanto a noi che leggiamo: “Puoi sempre ricordare il viso di una persona, ma non la sua presenza, il suo modo di riempire la stanza. Il modo in cui si muove o pensa o imbastisce un discorso.”

I luoghi non sono solo descritti ma animati dai personaggi, sono luoghi in cui le storie che li coinvolgono sono sentimenti, atti politici, vite straordinariamente sprecate: “Il temporale scese sulle colline nero-blu della notte, si fece largo dentro di lei, feroce e bellissimo, e trovò posto nel suo cuore, trovò casa.” Se per Bill i ricordi sono innescati da tutti quei posti che attraversa coi piedi, ma su un piano dell’Essere diverso per via dell’alcool e della droga, per Stacey sono i luoghi prettamente fisici che la riportano indietro, fino al divano su cui vede Lisa farsi bambina. Per Dan il passato è una bomba lasciata sui campi di battaglia della Grande Storia che marcisce in lui come la sua vecchia insegnante, sono schegge di ricordi che minacciano l’occhio buono. Tina, infine, quella “cagnetta scheletrica, […] a cui doveva essere successo qualcosa di brutto”, ci annovera solo i luoghi dell’Amore. Fa male tutto, insomma, fino al finale. In terra il pugnale, in cielo le stelle. Un po’ come questa Terra. “Capì, chiaramente, che il dono più sbalorditivo della coscienza era anche la nostra tragedia, il nostro luogo comune, la nostra grande maledizione: l’Amore e il suo rifiuto totale di arrendersi.” Alla fine tutti sono stati mossi dall’amore: dall’amore verso la patria, verso la terra, verso il prossimo, verso una donna, verso un uomo e ognuno ne è rimasto schiacciato, avvinghiato, incatenato e “privo di vita”. I luoghi sono il lato oscuro dei personaggi, che si muovono spesso di notte, sempre decadenti, sempre allo sfacelo, mai floridi se non nei ricordi. New Canaan è appesantita come da un manto soffocante che pare una maledizione, che ricorda l’atmosfera della Derry di Stephen King. Ma che ha anche una sorta di ascendenza da tragedia greca, come se dovessero improvvisamente spuntare delle Erinni vendicatrici da un qualche angolo del diner in centro, esigendo la vendetta del sangue.

Leggere Markley è stato come imparare ad andare in bicicletta. Sempre in equilibrio precario, all’inizio rischiando più volte di cadere, pensando: “Basta, non fa per me”. E allora ricominciare un’altra volta e aspettare la magia che avviene quando meno te lo aspetti. La sensazione è quella di una specie di discesa agli inferi, ma l’autore è di una bravura strabiliante nel prendere per mano il lettore e buttarlo nella scena fin dalle prime pagine per portarlo dove vuole lui. L’onniscienza del narratore, in alcuni passi, si percepisce quasi divina, eccessiva. A differenza di Pastorale americana che lascia dentro un dolore sordo e cupo, il narratore di Ohio, che tutto vede e sente, è al gomito dei personaggi, viene dal basso, altrimenti non si lascerebbe stregare dallo spazio siderale, non sentirebbe costantemente la seduzione della lontananza fatta di atmosfere e polveri e stelle. “Il cielo di dove sei nato non lo riconosci solo dal modo in cui si annuvola o in cui brillano le stelle di notte. Il cielo di casa tua si comporta come quando, da paracadutista, tiri la corda e l’aria si raffredda. Puoi avere girato il mondo e visto tramonti migliori, albe migliori, temporali migliori, ma appena scorgi all’orizzonte i campi, i boschi, le alture e i fiumi che ricordi, ti prende la commozione.” Il narratore è un uomo che calpesta lo stesso suolo dei personaggi, se delle volte sembra ne sappia troppo non è per l’intento del raccontare filosofico, il suo è un voler capire. La sua voce ha una grande energia, e pian piano con questo narratore si fa pace.
“Il passato ha potere su di noi solo se glielo permettiamo”. Nella sua foga non c’è malizia ma l’ingenuità di chi ha una storia forte dentro e vuole farla uscire in tutti i modi, e così alla fine gli crediamo.