“Se hai voglia di conoscere un cantastorie, leggiti Pennacchi.” Più o meno con queste parole un giorno Maria Luisa Magagnoli mi ha portato da Palude. E ancora una volta mi sono resa conto dell’importanza del passa parola.
Superfluo dire che Pennacchi mi ha travolto: infatti, sono qui a scrivere una breve introduzione per presentare questo autore che non ci ha regalato la tradizionale autorecensione ai suoi libri, ma l’attacco del romanzo Ombre rosse sui Lepini, di prossima pubblicazione.
Antonio Pennacchi nasce nel 1950 a Latina, dove tuttora vive. Ha lavorato per vent’anni come operaio nell’Alcatel. Due elementi, Latina e la fabbrica, importanti per la narrazione di Pennacchi, in quanto entrambi i suoi primi due romanzi, Mammut e Palude, prendono vita in essi.
Mammut, pubblicato da Donzelli nel 1994, ha come protagonista Benassa, uno che come Pennacchi vive intensamente la vita in fabbrica guidando i suoi compagni in lotte, in storie di amicizie “canine”, in amori “felini”. Alla fine Benassa, diventato scomodo ai padroni, viene incaricato di scrivere la storia della fabbrica; da quella storia Benassa passa a un romanzo e poi a un altro e un altro ancora. Mammut sembra quasi annunciare il secondo romanzo di Pennacchi pubblicato sempre con Donzelli nel 1995. Palude è un libro più complesso dove una serie di coincidenze lega i protagonisti del romanzo. Non si parla più solo della fabbrica, ma anche di Latina agli ultimi posti per vivibilità secondo statistiche nazionali; del F ederale che non ci può stare a questa statistica e decide di costruire a Latina il più importante ospedale per i trapianti di cuore; di Palude, il protagonista, che ha un cuore malato e in quest’ospedale andrà per essere operato: ma la sua operazione gli tirerà un “brutto scherzo” perché Benedetto si innamora di Lauretta e Lauretta di Bice. Non spaventatevi tutto nel romanzo ha una sua ragione nell’essere raccontata anche la storia di Littonia e del Duce che ritroviamo a litigare in cielo con Palude e Maria Coretti, santa protettrice di Latina. Insomma Mammut e Palude vi porteranno in un bellissimo viaggio pieno pieno di storie. E poi se, come me, desiderate ascoltarne altre, sedetevi e gustatevi la partenza di un nuovo viaggio verso i monti Lepini.
Lea Iandiorio
Una pagina da “Ombre rosse sui Lepini”
Il testo che segue è inedito. È l’attacco del nuovo romanzo che vado costruendo, Ombre rosse sui Lepini, e che spero di concludere per gli inizi dell’anno nuovo. Ruota tutto attorno a due fidanzatini – 23 anni lui, 17 lei – trovati uccisi a coltellate. Il mio editore, Donzelli, mi ha già pagato l’anticipo. Ed io l’ho speso. Ma ancora non so chi è l’assassino.
Àgora è un paesaccio che sta sulla montagna.
A dir la verità, sulla guida dell’Ente provinciale del turismo è scritto: “ridente paesino dei monti Lepini”. Ma che cos’abbiano da ridere non s’è mai capito, né Agora né i monti Lepini. E se eventualmente comunque ridono, di sicuro è per non piangere.
È a un passo da Roma e nelle notti serene, dal tempio di Minerva, se ne vedono perfino le luci: a poco più di 40 km, a nord. Ma è un paesaccio, e sta sulla montagna. In effetti sono montagne per modo di dire: la cima più alta è la Semprevisa, appena 1500 metri. E tutti paesi stanno a mezzacosta, tra i trecento e i cinquecento. Collina allora? Nemmeno. Perché i Lepini si alzano dalla pianura all’improvviso: rocciosi, erti, assolutamente non digradanti. Sbucano di botto – alla traditora – senza una salitella che sia premonitrice. È tutta roccia calcarea, bianca, con appena una spruzzata di terra, ogni tanto, portata da chissà quale vento.
Appena finiscono i Colli Albani – tutto tufo vulcanico marrone, sbriciolato in superficie, e misto a pozzolana: il paradiso della fertilità – cominciano loro, i Lepini: da Velletri li vedi come una linea dritta, che spacca l’orizzonte. Subito a sinistra c’è Cori, e Roccamassima, e ip fondo, a 50 chilometri, c’è Terracina. In mezzo Norma, Agora, Sermoneta, Sezze. E sull’altro versante, oppure coperte da costoni, Segni, Montellanico, Bassiano, Roccagorga, Maenza, Prossedi, Roccasecca, Sonnino, e infine Terracina. E sotto – per chilometri e chilometri – la tavola piatta dell’Agro Pontino, chiusa soltanto dalla lunga linea azzurra del mare, che circoscrive l’orizzonte, proprio in linea curva, dal sinistro angolo estremo di Terracina fino a Torre Astura, interrotta solo e per un attimo dal promontorio del Circeo. E poi più in là, da Torre Astura, puoi solo immaginare Anzio e Nettuno, ed Ostia Antica, ed oltre.
Noi stiamo nella pianura. E li abbiamo sempre considerati un vero e proprio corpo estraneo. Anche se, a dire il vero, quelli della montagna pensano esattamente il contrario: il corpo estraneo saremmo noi.
Anzi: un vero e proprio tumore. Per più di mille anni c’è stata la palude: selve e acquitrini infestati dalla malaria. Chi ci scendeva ci moriva. E loro restavano appunto là, aggrappati con le unghie e con i denti alla montagna. A mangiare soltanto olive, e a pascere le pecore. Con tutto quel ben di Dio in piano, loro seminavano il grano in mezzo alle rocce della Semprevisa, su in montagna, a fianco alla neve. Zappavano con il picco, trebbiavano col setaccio a mano, e riempivano i sacchi a colpi di cucchiaio. In palude, per mill’anni, c’erano scesi soltanto per la caccia e la pesca, qualche volta. O a nascondersi banditi, quando li cacciavano dal paese per qualche coltellata. E chiunque c’era sceso, poi ne era sicuramente morto: la malaria non ha mai fatto sconti.
Poi c’è stata la bonifica, negli anni ’30, voluta dal fascismo. E la pianura l’abbiamo popolata noi: migliaia di famiglie venete portate qua con le tradotte. Son passati 70 anni. Dei primi pionieri della bonifica non è rimasto quasi nessuno. Ma la palude non c’è più. La pianura è tutto un fiore. Strade, canali campi coltivati. Alberi da frutto: vigna, kiwi, tutto quel che vuoi. Anche banane e ananas, nelle serre. Banane più saporite di quelle del Tanganica. E case, fabbriche, città: Latina, Pontinia, Sabaudia, Aprilia. Un milione di persone, dove prima stava il deserto. È un pezzo di Valpadana; dove sembra che parliamo il romanesco, ma a pensare e a sognare si continua in veneto. Noi non ci siamo mai sentiti del Lazio. Il Lazio è sud. Ci è completamente estraneo. Alieno. Dopo ancora 70 anni. Noi siamo Waspo e la Liga Veneta ha già detto chiaro e tondo che – quando ci sarà la secessione e la Padania sarà uno stato libero e indipendente – noi dovremo fare parte di quella. Siamo cetnici. Saremo un’enclave. Saremo liberi e indipendenti come la repubblica di S. Marino. Ma solo noi della pianura, però. Non i monti Lepini. Noi Waspo. Loro Apaches.
“[…] Latina è quella cosa che si chiama prepotenza: ecco qua tutta la lenza che cià voglia di menà”
Canto popolare pontino
Antonio Pennacchi, nato a Latina nel 1950, è stato operaio presso l’Alcatel Cavi; si è dedicato alla politica dapprima nelle file del MSI e poi in quelle del Partito marxista-leninista Italiano. A cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta ha aderito al PSI, alla CGIL e poi alla UIL. Nel 1983 ha deciso di sospendere l’attività di attivista e di sfruttare un periodo di cassa integrazione per laurearsi in lettere e filosofia, iniziando in seguito la carriera di scrittore. Il suo primo lavoro, Mammut, è uscito nel 1995, seguito nello stesso anno da Palude. Storia d’amore, di spettri e di trapianti. Nel 2003 esce Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, romanzo autobiografico da cui nel 2007 è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Luchetti. Nel 2010 ha pubblicato Canale Mussolini, finalista al Premio Campiello e vincitore tra gli altri del Premio Strega, cui hanno fatto seguito Storia di Karel (2013), Camerata Neandertal. Libri, fantasmi e funerali vari (2014) e Canale Mussolini. Parte seconda (2015).
Fonte: Treccani
Il brano che Pennacchi pubblicò in anteprima su exlibris fu pubblicato nel 1998 da Donzelli nel romanzo dal titolo Una nuvola rossa (oggi fuori catalogo).
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