Un quadernetto giallo: questo era l’oggetto che più mi affascinava della libreria di mio fratello maggiore. Era il quadernetto delle poesie da imparare a memoria: per me, che appena imparavo a leggere, era qualcosa di magico. C’era tra le pagine una fotocopia volante, con stampate una piccola immagine in bianco e nero, forse di un carretto, e – come avrete capito – una poesia. Il titolo mi colpì subito: una novembrina come me non poteva non far caso a un Novembre scritto a grandi lettere. Questo il mio primo approccio all’autore del Fanciullino: un insieme di immagini nitide, di chiaroscuri secchi, di rime musicali, di silenzio freddo.

Poco dopo scoprii che mio nonno, elettricista, possedeva una vecchia registrazione de La cavallina storna, e da quel momento gli chiesi periodicamente di farmela ascoltare col giradischi: non capivo assolutamente nulla, come nulla avevo capito di Novembre. Ma mi lasciava sempre un senso di profonda inquietudine, di ansia, di tristezza. Molte di quelle parole erano difficili, per me, che non le conoscevo ancora: eppure il ritmo di base – ritmo che dava una sensazione di dolore profondo – quello sì che lo percepivo.

Ripensandoci adesso, credo che sia – quello dell’ascolto – il migliore approccio possibile che si possa avere con la poesia, soprattutto con quella pascoliana: perché la comprensione risiede proprio nella sua musicalità intrinseca.

Anche un bambino può accorgersi, per esempio, di come in Alba Festiva buona parte del componimento evochi, tra immagini e suoni, un insieme di luci e scampanellii, per poi al quartultimo verso capovolgersi in un tono decisamente cupo. Limitandoci ai suoni: per quindici versi ci accompagnano gaiamente parole come «squillano», «dondolio», «voce d’oro», «cantico sonoro», «tintinnio squilla, / voce argentina», «nota d’oro». L’incantesimo si spezza col sedicesimo verso, che ci disillude con un «ma» avversativo, e che continua coi suoni bassi di «voce profonda», «rimbomba» e «voce della tomba».

Ipotizziamo pure, per assurdo, che il bambino che ascolta questa Alba festiva non conosca così bene l’italiano da comprendere appieno il significato di ogni parola: a soccorrerlo gli viene incontro la musica, che proviene direttamente dalle parole che Pascoli sceglie, dalle stesse lettere (dai suoni) che le compongono. Fateci caso: il primo elenco di parole, quello festivo, risuona di i, spesso peraltro accompagnate da n, che il poeta tende ad associare all’evocazione della gioia; al contrario il secondo elenco straripa di immense e profonde (come gli inferi) o. È quello che i linguisti e i letterati chiamano «fonosimbolismo», è quello che Gianfranco Contini, proprio in riferimento a Pascoli, definisce «linguaggio pre-grammaticale». Comunica direttamente col fanciullino che è dentro ognuno di noi.

È capitato a tutti di sentire, di notte, quando ci si sveglia e non si riesce a riprendere sonno, un campanile lontano che batte le ore – un «Don don di campane», per dirla con Pascoli (Nebbia). A volte quel suono, quel battere, riporta a ricordi di altri campanili, di altre campane, di altre ore…

In Pascoli le campane sono un elemento (e quindi un segno: un simbolo) che ritorna spesso, sono una chiave per l’analogia, figura retorica che serve al poeta per operare collegamenti inediti fra le immagini poetiche, così da esprimere – sul piano simbolico – i rapporti segreti e misteriosi di cui si compone il nostro mondo. Ecco, nel sistema pascoliano le campane assumono un duplice significato a seconda delle situazioni: solitamente indicano un’atmosfera di sogno o di evasione verso l’infanzia (Alba festiva, La mia sera), ma talvolta evocano anche la morte, e quindi un senso vago di dolore e di angoscia (Nebbia).

… Ed è proprio nei ricordi e nei sogni che capita di risentire quelle voci che credevamo perdute e che invece finiscono per accompagnarci nell’inconscio per tutta la vita: «C’è una voce nella mia vita, / che avverto nel punto che muore; / voce stanca, voce smarrita, / col tremito del batticuore: / voce d’una accorsa anelante, / che al povero petto s’afferra / per dir tante cose e poi tante, / ma piena ha la bocca di terra: / tante tante cose che vuole / ch’io sappia, ricordi, sì… sì… / ma di tante tante parole/ non sento che un soffio… Zvanî…» (La voce).

Al piccolo Giovanni resta nel cuore, per sempre, la voce della madre che lo chiama, affettuosamente e in dialetto, «Zvanî», e gli ricorda la dolcezza dell’infanzia, la bellezza del nido familiare che gli si sgretola tra le mani bambine ed impotenti, e che cercherà per tutta la vita di ricostruire. Questo è il sogno che Giovanni conserva tanto nella vita reale quanto nella finzione poetica:

«Per un attimo fui nel mio villaggio, / nella mia casa. Nulla era mutato. / Stanco tornavo, come da un viaggio; / stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato. / Sentivo una gran gioia, una gran pena; / una dolcezza ed un’angoscia muta. / – Mamma? – È là che ti scalda un po’ di cena. – / Povera mamma! e lei, non l’ho veduta» (Il Sogno).

Attraverso le parole e i suoni, attraverso la poesia Pascoli è in grado di tornare ai suoi ricordi dell’infanzia e del nido perduti, ai morti familiari che continuano ad accompagnarlo. Le parole sono come gli uccelli che in gran numero si trovano nei versi del poeta: che cosa sono? che cosa dicono? Sono abitatori di una regione superiore, lontani dalla violenza della storia, sono simbolo di leggerezza e di rapimento estatico, ma anche intermediari tra il mondo dei vivi e quello dei morti, come gli antichi oracoli del mondo classico, esattamente come le parole. La poesia ha un così forte potere evocativo – attraverso il fonosimbolismo (la musica) e i sogni – che diventa creazione ed è, per Pascoli, una possibilità di reinvenzione (oltre che di interpretazione) delle cose e del mondo:

«La poesia sgorga da un commovimento dello spirito che sembra rivelare cose ignote, non che agli altri, a noi stessi; è una creazione che, per dir la nostra, dobbiamo creder fatta come in sogno».

Catalina Boschero