Nel 1990 con 🔗Insciallah Oriana Fallaci affronta il tema del fondamentalismo islamico attraverso la forma romanzo raccontando la guerra in Libano dei primi anni Ottanta con protagonisti i militari di un contingente italiano. Ma è con 🔗La rabbia e l’orgoglio che la giornalista-scrittrice abbandona l’approccio del reportage giornalistico, della scrittura diaristica (utilizzata per esempio in 🔗Niente e così sia per raccontare la guerra del Vietnam) e della finzione narrativa (pur sempre nello scenario di eventi reali e circostanziati) virando in modo brusco e intenso verso il pamphlet militante e schierandosi apertamente dalla parte dell’Occidente, stigmatizzando con notevole forza, determinazione e crudezza l’intolleranza e la ferocia del terrorismo di matrice islamica ma anche l’ignavia e l’immobilismo, quella “cautela ecumenica” – come scrisse Giuliano Zincone sul  “Corriere della Sera” il 17 settembre 2001 – dell’Europa, tra cui l’Italia e la politica italiana, alle quali la scrittrice riserva pagine durissime e sprezzanti.

Il punto di svolta è l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001: dopo pochi giorni compare, sul “Corriere della Sera”, un lungo articolo dall’omonimo titolo che è, in nuce, il libro pubblicato nello stesso anno, a cui seguiranno 🔗La forza della ragione (2004) e 🔗Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse, tre titoli che costituiscono una trilogia incentrata sui medesimi temi.

Con La rabbia e l’orgoglio Fallaci compie una scelta di campo netta e irriducibile: come tutti i pamphlet è un urlo (un sermone, una predica agli italiani come lo aveva definito la scrittrice stessa) scaturito dall’indignazione e amplificato dalla rabbia nel constatare come l’Occidente, la chiesa e le istituzioni in generale abbiano perso di vista i valori della civiltà occidentale, una sottomissione, per citare Houellebecq, certamente non compiaciuta e accettata come quella dell’universo distopico creato dello scrittore francese.

Il pamphlet consente alla scrittrice fiorentina di liberarsi da un approccio analitico e sociologico per assumere una forma narrativa militante e manichea, schierata senza se e senza ma, un’invettiva (ricordiamo, en passant, che la terra toscana, da cui proviene Fallaci, è terra di invettive, un genere letterario che ha avuto interpreti illustri come Poggio Bracciolini, Petrarca e Dante con il canto VI del Purgatorio, “Ahi serva Italia, di dolore ostello”) caratterizzata da un periodare che alterna frasi concise e dirette, volte a muovere le coscienze dei lettori, a riflessioni di carattere geopolitico; da giudizi tranchant sulla politica e sull’Italia (“Italia infingarda e smidollata”), dalla quale si considera un’esiliata forzata, a momenti di dolorosa introspezione nei quali emerge l’impossibilità di provare una qualsivoglia forma di pietas nei confronti della barbarie terroristica. La rabbia e l’orgoglio è anche una sorta di auto intervista, quell’intervista che Ferruccio De Bortoli, volato a New York il 15 settembre, dopo aver ricevuto una telefonata da Fallaci stessa, avrebbe voluto realizzare senza sapere che lei l’aveva già fatta con domande e risposte. E infatti tra le righe abbondano tanto le interiezioni dell’invettiva (Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi”) quanto le interrogative che scandiscono le domande, domande rivolte a sé stessa (“che cosa sento per i kamikaze che ora ci affliggono?”), domande rivolte ad altri, a personaggi del presente storico («Monsieur le Président! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa quanti americani creparono in Normandia per cacciare i nazisti dalla Francia?» nei confronti di Chirac) e poi domande rivolte al lettore (incarnato da De Bortoli), una interpellazione diretta che (“Qual è la mia Italia, allora? Semplice, caro mio, semplice”) che scuote le coscienze.

Naturalmente La rabbia e l’orgoglio non può essere liquidato come un semplice sfogo, Fallaci, da profonda conoscitrice del mondo e della natura umana (sono innumerevoli le sue interviste ai grandi protagonisti della scena internazionale, Arafat, Gheddafi, Khomeyni per rimanere nel mondo arabo) può permettersi di evitare la forma saggistica e meditata – complice anche la prima stesura giornalistica dello scritto – per abbracciare l’urgenza narrativa dettata da un j’accuse che non lascia spazio a fraintendimenti: “Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.”

Valerio Costanzia