Dutton, contea di Teton – 300 abitanti o giù di lì. Siamo in Montana, a nord di Great Falls, non troppo distante dal confine con il Canada, al cuore delle praterie. Un’autofficina, probabilmente nel centro di Dutton, che è solo un francobollo: al piano superiore, una stanzetta, adibita a ufficio. Autunno del 1989, mentre l’Unione Sovietica sta cadendo a pezzi.

C’è un uomo, seduto nell’ufficio: lo vediamo di spalle, chino sopra un tavolo. Non dev’essersi accorto che abbiamo aperto la porta, che siamo appena entrati.

L’abbiamo già incrociato in questo nostro viaggio: un altro autunno, dodici anni prima, a Dallas, Texas, nel Campus della Southern Methodist University. Una sera piovosa, durante un festival letterario.

Si trovava, con parecchie altre persone, in uno stanzone del campus, freddo e dall’acustica pessima, un piccolo palco sul fondo e un unico faretto. Era in attesa che uno scrittore di nome Raymond Carver, mai incontrato prima, incominciasse a leggere i propri racconti. Gli erano piaciuti, quei racconti, gli era piaciuto il modo in cui l’uomo li aveva letti. Al termine del reading, gli si era avvicinato per complimentarsi, battendogli una mano sulla spalla. Si erano presentati – “Raymond, ma gli amici mi chiamano Ray”, “Richard, Richard Ford” – e avevano parlato per un po’.

Amici, già. Erano diventati grandi amici.

Andavano a pesca e a caccia di anatre. Parlavano di letteratura, dei soldi che non c’erano o mai abbastanza, delle loro tribolate giovinezze, delle frustrazioni, dei figli di Ray, di tutti i progetti. Sogni e disillusioni. I posti da cui provenivano – entrambe le famiglie originarie dell’Arkansas, famiglie comuni, di gran lavoratori – quelli in cui si trovavano.

Due regular dudes, che avresti potuto trovare in una sala da bowling oppure in un diner, intenti a mangiare e a chiacchierare, nella provincia americana. Entrambi scrittori, certo – dopo quel primo incontro, Richard aveva pubblicato altri due romanzi, L’estrema fortuna e Sportswriter, che si erano aggiunti al primo, uscito nel ‘76– e molto ambiziosi, ma benedetti dalla medesima unsophisticated mind (quanto capisco questo genere di benedizione).

Due regular dudes, appunto, Ray e Richard.

Niente d’inutilmente sofisticato, e nessun giro di parole. Tutto robusto ed essenziale, per entrambi, e sempre al cuore delle cose. Prendete ad esempio questa frase di Richard riguardo alla scrittura ma soprattutto riguardo al successo o meno di un libro: “I made a dedicated decision that I am going to take responsability for everything and the things I can’t take responsability for, I’m not going to worry about.”

Ecco qui: semplice e chiaro.

E poi, nel giugno del 1988, a Port Angeles, nello stato di Washington, Ray era morto per un cancro ai polmoni, e Richard aveva perso il suo migliore amico.

Stava lavorando a un altro libro, in quel periodo, un romanzo che aveva intitolato Wildlife – noi lo conosciamo come Incendi: un breve, grandissimo miracolo, la storia di un ragazzo e del matrimonio, sul punto di rottura, dei suoi genitori, a Great Falls, Montana, nell’autunno (un altro autunno, sì) del ’60, mentre un incendio, che pare inestinguibile – la vita, la vita – divampa per i boschi.

Scriveva e piangeva il suo più caro amico.

Era riuscito a finire il romanzo, comunque – una storia che, in modo tutto traslato ovviamente, aveva a che fare con lui, con la sua giovinezza – e l’aveva spedito al suo editor, Gary Fisketjon.

E qui torniamo a Dutton, nella contea di Teton, nel Montana, quasi al confine con il Canada. Torniamo sulle praterie. Torniamo nell’ufficio in cui eravamo appena entrati. L’uomo, chino sul tavolo, è lui, è Richard.

Essendo uno scrittore – avviciniamoci di un paio di passi, ma senza far rumore – adesso sta scrivendo.

Ray è morto da più di un anno, ormai, e Richard aspetta che Gary gli rispedisca le bozze editate di Wildlife, e nel frattempo, per occupare il tempo, per non pensare troppo ad altro, scrive.

È ancora lontano il premio Pulitzer, che vincerà nel 1996 per Il giorno dell’Indipendenza, insieme al PEN/Faulkner Award. È ancora lontano il tempo del grande successo internazionale, degli altri riconoscimenti.

In quell’ufficio nelle praterie, a Dutton – capitale del grano – sopra un’autofficina, Richard sta buttando giù una storia – una ventina di pagine, più o meno – su un altro ragazzo, Dell Parsons, sedici anni, sulla sorella gemella, sui loro genitori. Quelle venti pagine hanno già un titolo.

Il titolo è Canada.

Immaginiamo una finestra, allora, da cui entra la luce autunnale – si posa sopra il tavolo su cui lui sta scrivendo. Immaginiamo il vento sulle praterie, fuori dalla finestra, sul centro minuscolo di Dutton. Avviciniamoci di più: immaginiamo lo sguardo di Richard che, lentamente, si alza dal foglio e scruta l’orizzonte, fino a dove può spingersi, fin quasi al confine con il Canada.

La vita è un attraversamento di confini. È uno sconfinamento, uno spaesamento. È sempre un nuovo inizio, e non sai mai come potrà andare a finire. È un viaggio in uno spazio sconosciuto, ancora da esplorare: ci andiamo da soli, anche se laggiù c’è sempre qualcun altro.

Ray ha da poco affrontato il suo ultimo viaggio: adesso è irraggiungibile. Ma a Richard tocca comunque proseguire, nel vento delle praterie.

I suoi occhi azzurrissimi si socchiudono appena, scrutando l’orizzonte: sente che c’è qualcosa, là, qualcosa che lo aspetta, qualcosa da raggiungere. È l’attimo più misterioso, questo, il momento in cui una storia prende forma – nella mente o dovunque accada – in cui se ne intuisce il senso, la natura.

Gli siamo di fianco, in quell’ufficietto, in quel preciso istante, ma lui non si volta. Seguiamo la direzione del suo sguardo, allora, prima che si rimetta a scrivere, lungo le praterie – fin là, fin là – anche se non sapremo mai, esattamente, a cosa stia pensando.

E poi arrivano le bozze di Wildlife, e Richard torna al lavoro sul romanzo che deve uscire a breve, e archivia per un po’ quella ventina di pagine. Le ficca dentro un freezer. Non è una battuta, le lascia davvero dentro un freezer. Fa sempre così, con tutti i suoi lavori: li tiene al fresco.

Dovranno passare altri vent’anni – altri romanzi e racconti, nel frattempo, tra cui Il giorno dell’Indipendenza, appunto – prima che arrivi fino al Canada, con la storia di spaesamento e di attraversamento più bella che io abbia mai letto, una delle storie per cui, sono sicura, verrà ricordato.

Ma quel momento del 1989, mentre l’Unione Sovietica sta cadendo a pezzi, in un ufficio sopra un’autofficina nel Montana, con il pensiero dell’ultimo viaggio oltreconfine del suo più grande amico – l’ultimo confine – e con il vento che soffia sulle praterie, ecco, quel momento rappresenta il mistero delle storie, per quanto mi riguarda, il loro nascere nel tempo e nell’esperienza, in posti precisi del mondo, a volte i più improbabili, in istanti precisi della vita, da gente piena di speranze e di rimpianti e di ricordi, rimorsi e nostalgie, gente che scruta l’orizzonte sentendo che c’è ancora qualcosa, là, qualcosa che li aspetta. Bisogna andare, bisogna incamminarsi. E questa è la scrittura.

Un giorno lontano, Ray aveva confessato a Richard che era preoccupato per sua figlia, che in California usciva con un motociclista, un vero e proprio disgraziato.

“Lo ammazzerei, dico sul serio.”

“Se vuoi, lo faccio io per te”, gli aveva detto Richard. “Basta che mi paghi il biglietto per arrivare là. Lo sai che non ho un soldo.”

Arrivare là.

Nessuno di due, è chiaro, avrebbe mai fatto una cosa del genere. Ma erano amici, ed erano due regular dudes, due compagni di viaggio. Insieme, quei due dudes hanno fatto un bel pezzo di storia della letteratura americana.

Che la terra sia lieve per il primo, e ancora tutta da attraversare, da esplorare, per il secondo, Richard, Richard Ford, l’uomo che in un ufficio sopra un’autofficina, in un paese di 300 abitanti, nell’autunno del 1989, scrutava l’orizzonte con i suoi occhi azzurri, guardando lontano, fin dove poteva – è questa, lo ripeto, la scrittura.

So far, see you tomorrow. Arrivederci a entrambi.

Nota a margine: questa è l’ultima tappa del viaggio di Americana prima delle vacanze estive. Parcheggiamo il nostro vecchio pickup: lo riprenderemo a settembre.

Tutta la mia gratitudine va a voi, lettrici e lettori, per questa prima parte del viaggio, e insieme va a Lea Iandiorio e a Exlibris20, il posto in cui quello che sogni diventa una cosa che puoi fare. Non solo non è poco: è l’unica cosa che conti davvero.

Elena Varvello

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