«Cet homme qui attend et qui en souffre est miraculeusement féminisé»

Fragments d’un discours amoureux, R. Barthes

« Sono un’anomalia » Teresa Ciabatti a cui dedico questa recensione

In Ternitti, romanzo del 2011, Desiati raccontava già qualcosa dell’essere spatriati. Un altro lembo di questo discorso. Un’altra forma di spatriamento meno intima o meno autobiografica, eppure non tanto distante da questa che ci racconta nel suo ultimo romanzo Spatriati. In Ternitti, Desiati metteva sulla pagina l’emigrazione degli anni sessanta, quella della disperazione. Quella da cui si tornava vinti. Quella che deve ancora essere risarcita ma non lo sarà mai. Migrazione che sbiadisce come il tempo. Ma soprattutto raccontava proprio il suo opposto: le radici, che sono una pietra lunare tra le pietre dei trulli, un fossile. Ciò che non si cancella e a cui si ritorna. Simbolo di quel movimento era la protagonista Mimì Orlando, una donna come Claudia, la protagonista di Spatriati. La radice scava un posto, una specie di nascondiglio in cui Mimì si ritrae, sotto il letto per non andare a scuola, sotto una brandina per sfuggire alla violenza. Un posto che è come un richiamo che si porta dentro: lo spirito animale ramingo e radicato. Quella di Mimì era un’animalità piena di crepe e di ferite. Ferita dall’emigrazione, dalla povertà della vita e dai vetri della baracca in cui vive assieme ad altri immigrati italiani in Svizzera. La ferita di un primo e ultimo amore vissuto nello spazio violento e comune della baracca. Le ferite in cui passa il dolore per le morti dovute all’amianto che si mesceva in quella fabbrica. Eppure, anche se piena di tagli, Mimì conservava una superficie intatta, a tratti troppo perfetta, troppo chiusa su se stessa, troppo uguale a se stessa, come un frutto tondo. Ed è su questa superficie tonda che Desiati torna, per romperla davvero, ma senza ferocia.

La famiglia in Spatriati è una cosa che fa male da cui bisogna scappare e bisogna farlo in fretta. Camminare, allontanarsi dai genitori e dalle cose che fanno piangere, si ripetono i protagonisti. Claudia lo sa, sa dirselo prima di Francesco. I loro genitori, due coppie maleassortite, unite dalla tenerezza, quella dei genitori di Claudia, o da una passione fortuita, quella che legava i genitori di Francesco. Sentimenti insufficienti, che non bastano. Due coppie che vanno avanti per inerzia e perché così deve essere, “per allinearsi al mondo delle parentele perfette e felici che scartano i regali sotto l’albero”. Restare assieme, una coppia “perbene”, nonostante tutto, nonostante i figli, nonostante il tradimento, che unisce segretamente le due coppie. Che unisce e separa per sempre anche Claudia e Francesco.

Claudia scappa, brucia e mette distanza. Parte per Londra, poi va a studiare a Milano, poi arriva a Berlino. Francesco ascolta, resta, subisce l’assenza, ha bisogno di mettere continuamente in scena l’abbandono. “Dilaniato in due metà, uccelli distanti, il migratore e lo stanziale”. Claudia parte. Ma anche se non partisse sarebbe come se fosse partita lo stesso perché come ci racconta Barthes “l’autre est en état de perpetuel départ”. L’assenza di Claudia è la misura del loro amore, di un amore che non può essere completo. Francesco resta e racconta l’altro lato della partenza: quello che lasci, quel sé che Desiati, che vive tra Roma e Berlino, ha lasciato in Puglia, indietro, probabilmente quello che la sua vita sarebbe stata se non fosse partito. Poi finalmente anche Francesco parte per Berlino, ma in qualche modo è l’ultimo ad arrivare, dopo Claudia, e dopo Desiati.

In realtà Claudia fugge dalla madre, una donna invadente e ridicola e soprattutto dal desiderio impronunciabile di avere il padre tutto per sé. Così come Francesco vorrebbe fuggire da un padre grottesco e apparentemente innocuo e dal desiderio prepotente che nutre per la madre. Claudia sceglie la strada della “castrazione” e dell’intermittenza. Francesco quella della “frustrazione”, ha bisogno di sapere che la madre è lì, di raggiungerla clandestinamente nei turni di notte, di sentirsi stanato, incalzato dalla madre. Ha bisogno di usare il suo rossetto e lasciare l’impronta di quella verità sul cuscino. Ha bisogno di nascondersi ancora senza mentire però. Per confessare candidamente quel pensiero troppo tenero che per anni la cultura maschilista ha seppellito “ci abbandonammo a un abbraccio, sentii i muscoli e i gomiti, l’odore di vaniglia, l’odore di mamma”.

Spatriato, migrante, nomade, un movimento antico. Le migrazioni avvenute durante la seconda guerra mondiale, e quelle del dopoguerra, poi, dopo un trentennio di benessere, le nuove migrazioni che oramai sono globali. Verso la fine degli anni novanta, la libera circolazione in un’Europa senza frontiere, che sembra in realtà un’immagine che si sovrappone ad un’altra in cui le frontiere continuano ad esistere, compatte e solide. La libera circolazione di ventenni come ero io allora che si muovono da cittadini europei senza rendersene appieno conto. Gli espatriati come i protagonisti del romanzo e lo stesso autore. Una valigia che diventa uno zaino. Una casa che si riduce ad una stanza di un monolocale che dividi con un flatmate. Una lingua che impari nel giro di pochi mesi, per strada, parlando con compagni che vengono da ogni parte del mondo, innamorandoti di persone che sembravano eccezionali. Ti dimentichi del sole, del mare, delle pietre. Il cielo delle capitali del nord Europa ti ingrigisce il cuore ma non te ne accorgi. Basta l’euforia. Voli, treni, per prenderti della tua famiglia solo quanto basta. Ma anche una eterna giovinezza, uno snobismo linguistico. L’avventura da cui non si torna né vincitori né vinti.

Qui, luogo di questa avventura è Berlino. La Berlino di Claudia e la sua vita privata, poi di Francesco e la sua vita, poi di Claudia e Francesco e l’altro, uomo o donna, Andria o Erika. Berlino con la musica che buca il cuore e libera le emozioni. Dove le possibilità dell’amore e del piacere nei club, nei bagni turchi, nelle strade si moltiplicano e i modi di stare assieme si improvvisano sul caos dell’istante, dell’atto altrimenti mancato, fuori del binomio troppo stretto etero-omo. Per i protagonisti di questa storia, Berlino è il posto dove “le aspettative aderiscono ai fatti”. Dove la tolleranza che può anche nascondere, e forse nasconde, solo una forma di indifferenza e anonimato, rende possibile a loro di mutare pelle. Ma forse è soprattutto la distanza che hai deciso di frapporre tra te e le tue origini, a creare una specie di disorientamento che in qualche modo ci permette di vedere ad ogni momento quello che smettiamo di essere, quella parte di noi che non ci sarà più.

Ma Francesco e Claudia non sono solo espatriati.

Chi è Claudia? Di lei Francesco sa tutto, troppi dettagli, sugli appuntamenti con i suoi amanti, proprio come se fosse stato lui al posto di Claudia. Claudia è lo strascico di un’apparizione, il traino dell’imbarazzo e delle incertezze di Francesco. Un dettaglio che si espande all’infinito. Claudia è la figlia femmina che Francesco sente che nella sua casa un tempo la madre aveva desiderato “quando si aspettavano ancora figlie invece di figli”. Diventa così un personaggio, uno schermo, un’impostura di cui lo scrittore ha bisogno per smascherarsi, per riuscire a toccare se stesso, le sue vacillazioni, la sua diversità, e con lei, la sua sessualità e il suo immaginario amoroso. È Claudia a mettergli in bocca il sesso di un altro uomo. Claudia è quella parte di sé che il narratore ha lasciato andare via prima di lui, libera, prima di andarsene anche lui per davvero. In questo senso Claudia che sfila la minigonna e resta in mutandine e si sente fortissima è ciò che in qualche modo ha permesso a Desiati di scrivere questa storia.

Claudia, Francesco, le stagioni che non si svolgono sul fondo, lontano dai personaggi ma si avvicinano a loro, si sciolgono addosso, si aggiustano su di loro, si mangiano dai finestrini abbassati, a volte artigliano, altre ti stringono nell’ombra. Sono i filamenti di quella radice fibrosa attorno a cui si costruisce comunque lo spatriato, stanno dentro agli occhi e ti sorreggono la schiena. Claudia e Francesco se li passano mentre si incrociano gli sguardi. Una mappa precisa, che Desiati calpesta, pezza a pezza, con tutti i fiori selvatici e le erbe medicinali di cui ti riempi la bocca per soffocare il pianto. E che porta con sé, come pezzi di verità, nei fiori, nelle piante, nell’acqua di un lago berlinese. In un territorio di tautologie dove l’esterno no sta sullo sfondo di un paesaggio conformista in cui ogni cosa è al suo posto ma si agita dentro, ti viene addosso.

Francesco e Claudia sono spatriati, anomali, inclassificabili, diversi da subito. Da neonato Francesco era già l’uva nera, come lo chiamava la madre. Già il cognome Veleno che Desiati ripete risuona come una tara. Claudia è un punto rosso su una pelle bianca nel cortile della scuola di Martina Franca. La diversità non è solo una parola con cui gli altri ti evitano soprattutto o ti accolgono, ti tengono a distanza o ti avvicinano, che poi è proprio quello che ti aspettavi che facessero o dicessero. È la parola che ti riservano quando torni. Quando Francesco ritorna in Puglia. Ma è soprattutto un’identità che si è costruita prima o parallelamente, sotto ogni sguardo che ti è stato rivolto o sottratto dai tuoi genitori, sotto gli sguardi che si sono rivolti loro al di sopra di te. Una risposta abnorme all’intensità dell’amore attorno, e dei suoi scompensi. E questa identità deve sempre aggiustarsi, è sempre affianco a qualcosa (una persona, un luogo). È una bugia e una verità di cui si ha paura, che non ha il coraggio di valicare la porta. “Un altro essere maschio, niente più che essere persona”. Un buco tra l’amore (quello che muove gli spatriati) e la depravazione (quella degli altri, cinquantenni, padri di famiglia). Tra lo sbaglio e la felicità. Spatriato allora vuol dire meravigliosamente unico.

La fuga, la decisione di andare via accade ancora e può essere ancora estrema. Te ne rendi conto con il tempo, quando la vita continua, scorre, si riempie di altre vite e si complica. Diventa sempre più estrema e radicale. E il desiderio di ritornare al punto di partenza si fa segreto, acuto, mentre i ritorni si fanno sempre più sporadici, perché in realtà non c’è più nessuno da cui tornare. E allora si apre uno spazio, quello dello spatriamento o di un altro spatriamento. Uno spazio di struggimento, per me.  Un  non-luogo, un detour, una fantasia che è il perimetro in cui nasce questo bellissimo romanzo. E questo perimetro finisce per coincidere comunque con il cortile di scuola di Martina Franca, la scenografia della partenza, l’origine del respiro. L’esitazione tra Claudia e Francesco, tra una lingua stretta ancora dalla necessità di spiegarsi (il dialetto, il tedesco, le letture), di stabilire comunque un quadro di orientamento e lo spaesamento dove ogni deviazione basta a se stessa e non deve rispondere a nessun altro che a te stesso.

“La pleine lune d’automne, Tout le long de la nuit J’ai fait les cent pas autour de l’etang », sospira un haiku. Spatriare è come fare i cento passi attorno allo stagno, disegnare un cerchio attorno a quello stagno, in due orbite parallele che non si possono toccare, per il tempo nero come la corda di una processione e infinito, infinitamente triste e infinitamente libero, di quel “tutta la notte”.

Silvia Acierno

Vai alla tua libreria di fiducia o sul sito Bookdealer
Oppure compra su Amazon