It is a crude trap, and it has worked for too long (S. Sontag)
Je vivais à douze ans dans les codes et les règles de ce monde, sans pouvoir en soupçonner d’autres (A. Ernaux)
Tutti hanno raccontato la bellezza femminile, esaltandola anche quando in fondo le attribuivano tutti i mali. Baudelaire, nei versi di “Beauté”, poema raccolto nei Fleurs du Mal, ne evoca e sintetizza tutte le irriducibili contraddizioni, le ombre piuttosto che le luci di qualcosa che, a ben guardare, assume i contorni di una specie di complotto, un eccesso sottoposto al più serrato dei controlli, un fiore marcio. In quei versi c’è tutto: la bellezza condensata nel corpo femminile, bellezza che uccide, intrecciandosi a sentimenti violenti di gelosia e possesso (“Et mon sein, où chacun s’est meurtri tour à tour”), che ispira al poeta un amore eterno (la gloria immortale a cui aspira il “primo sesso”), eppure muto (non veramente sentito da un uomo che è sempre alla ricerca d’altro, a cui corrisponde anche il mutismo di una certa immagine docile e stereotipata del femminile). La bellezza che si confonde con la purezza di quel bianco virgineo e impeccabile (“J’unis un cœur de neige à la blancheur des cygnes”); insensibile (“Et jamais je ne pleure et jamais je ne ris”); ingannevole (“De purs miroirs qui font toutes choses plus belles”); una sfinge impenetrabile, algida e rigida, di fronte al continuo movimento delle linee della vita e dei sogni.
Un sogno di pietra. Un’immagine materiale, un monumento da ammirare, cristallizzata e “gelata”. Sogno di una società in cui ci dicono anche quello che dobbiamo sognare, in cui il nostro mondo interiore non è mai al riparo.
Poi, in un posto assolutamente lontano e diverso, c’è una delle fotografie di Marguerite Yourcenar, bellissima con quei suoi occhi trasparenti, il volto piccolo e squadrato, bellissima anche ad ottant’anni. Non solo perché lo stile invecchia insieme a noi, lo diceva lei, ma perché si tratta di un’altra bellezza, molto meno ammirata, oggi decisamente fuori moda. Yourcenar avvolta in scialli e mantelli un po’ folk, quegli scialli che erano pezzi di storie e souvenir di viaggi che non lasciavano scoperto nemmeno un pezzetto di pelle. Perché in qualche modo proteggevano (come poi avrebbe fatto la scrittura) quel suo mondo interiore, la libertà interiore. Quel posto opaco in cui risiede la bellezza delle persone sempre così sfuggente e sorprendente, sempre così inesorabilmente legata anche alla negatività, alla rinuncia, alle ricuciture, e che invece il capitalismo e il patriarcato vogliono sempre più codificata, superficiale, vistosa, tirata, gonfiata, levigata, sessualizzata, perfomativa. Senza sbavature né giunture.
In Specchio delle mie brame, saggio rigoroso e perspicace di Maura Gancitano, c’è una scena che ne contiene un’altra. Ed è su questo che vorrei soffermarmi. La scena che viene tralasciata. Dietro la saggista c’è una donna che da ragazzina deve aver sofferto abbastanza, perché si sentiva inadeguata, perché era troppo grassa o perché piuttosto lei non ci vedeva niente di male ad essere come era, libera e con qualche chilo di troppo. Perché era una ragazzina un po’ trasandata nel suo aspetto, o semplicemente perché non capiva come gli altri dessero importanza a quello a cui lei non ne dava. L’abbiamo vissuto molte di noi, che siamo state principesse agli occhi dei nostri genitori. Quello che mi cattura però è la potenza con cui quella bambina, poi adolescente, che cresce con questo senso di inadeguatezza, sta ancora dietro e dentro alla donna colta e completa che scrive questo saggio. Nonostante tutto, sopravvive intatta e meravigliosa. Quella ragazzina sta ancora vivendo la sua battaglia, sta ancora lottando contro il drago. In questa donna poi, che intanto è diventata anche madre, c’è un’altra donna, sua figlia, che oggi ha la stessa età che lei aveva quando in qualche modo, così mi piace pensare, ha cominciato a comporre questo saggio. Una ragazzina che agli occhi attenti e teneri della madre sta vivendo le stesse difficoltà sperimentate da lei. Perché le storie si ripetono o siamo noi a volere che si ripetano.
La forza del saggio sta soprattutto in questa genealogia di inadeguatezza che nonostante tutto, tutto il progresso, sopravvive tenacemente. In questo legame inesauribile che avvolge e protegge come solo un abbraccio materno sa fare, che non è mai al riparo dai pregiudizi di una cultura patriarcale che non si arrende. Intatta come un muro. Il muro di quella cultura occidentale che nel tentativo sofisticato di Federico Rampini, non può neanche concedersi il suicidio (Suicidio occidentale). Perché se è vero, come scrive Rampini, che la controcultura ed il politicamente corretto hanno le loro ingenuità e difetti (come qualsiasi visione estremista del mondo) è anche vero che una buona dose di “autolesionismo”, quello autentico e profondo, è necessaria. E allora, abbattiamolo questo muro.
Gancitano ci spiega come nasce l’attuale mito della bellezza, che come tutti i miti moderni, che sono costruzioni del capitalismo, è alienante: “ci fa dimenticare chi siamo e ci porta fuori dal nostro corpo”. Spiega come sia un meccanismo perverso di autosorveglianza che non conosce riposo. È sempre lo stesso meccanismo, ma con il tempo si è affinato, si è fatto più subdolo, meno brutale: non si tratta di mettere al rogo streghe, esibire fenomeni da baraccone, o lobotomizzare mogli isteriche. “È una coercizione più capziosa di quelle che le donne hanno subito in altre epoche, perché le illude che possano fare qualcosa, che dipende da loro, e le convince che se ritengono ridicolo il mito stanno mettendo in dubbio tutto l’ordine sociale”. In un racconto appassionato, Gancitano spezza il mito, rompe l’incantesimo e lo disarticola in tutte le sue forme e codici: dalla pubblicità che non ti lascia scelta ma solo scelta “tra”, le riviste femminili promotrici di una mistica della femminilità; l’educazione sessuale in cui si disimpara a desiderare (perché possiamo desiderare solo di essere desiderabili); il linguaggio non verbale; il fitness e gli atri standard di perfezione e performatività (e per noi, mortali e sedentari, tutta l’ansia correlata); la riduzione della spiritualità ad una altra tecnica che si può imparare con un corso pronto all’uso; l’industria della bellezza (dalla cosmesi alla moda) che si fa evidentemente più scaltra e forsennata proprio nei periodi in cui è più forte la domanda di indipendenza attraverso il riciclaggio di miti del passato, e nuove letture che in fondo sono vecchie quanto le prime; la rivalità tra le donne (a scapito della sorellanza); lo standard del corpo bianco e depilato; l’esclusione delle donne trans e delle minorie; le taglie in cui dobbiamo rientrare per forza; il nuovo controcanone del saper invecchiare come Andie McDowell, eppure la vergogna di invecchiare; la sessualizzazione martellante del corpo femminile; la chirurgia estetica; e finalmente l’universo “social”, con i suoi filtri e le sue immagini “photoshoppate”.
Quello che ne viene fuori, mito dopo mito, rito dopo rito, sono i mattoni di una prigione. Il carceriere lo conosciamo. Le chiavi sono quello sguardo auto-oggettivante (non sono un corpo, ma sono fatta di pezzi, seni, sedere, labbra, ecc.) che ci fa guardare sempre da fuori e ci impedisce di “fiorire”, abbandonandoci a noi stesse e all’esperienza. Il problema è che le chiavi le abbiamo in mano. Siamo noi che ci vediamo così. Eppure se le mettiamo nella toppa, la serratura non scatta. Sono una specie di passaporta (come quelli di Rowling), per entrare però sempre nello stesso mondo. Come uscire dalla prigione dunque?, si chiede Gancitano alla fine di questa carrellata. Evidentemente, il disclaimer “sei bella come sei” non basta. È un gatto che si morde la coda; è un controcanone che ristabilisce il canone. Eppure Gancitano è ottimista, ci esorta ad abbandonare le interferenze e a ritrovare la bellezza, quella vera, “che accade quando riusciamo a sentirci nel flusso”.
Nel 1975 Susan Sontag, sempre così visionaria, ed oggi ancora più visionaria visto lo scarto temporale, pubblicava un saggio di poche pagine sulla bellezza, A Woman’s Beauty – A Put Down or Power Source. Come sempre, Susan Sontag riesce a prendere subito la questione dal verso giusto, il toro per le corna. Subito addita i due lati di questa pericolosa moneta di scambio: potere e vergogna, qualcosa che ti porta su o meglio ti fa sprofondare giù, anche quando pensavi di avere la bacchetta dal lato giusto. La bellezza come spesso accade ai miti nasce da una separazione: fuori e dentro, sostanza ed apparenza. Un’altra di quelle dicotomie su cui si è costruito tutto il pensiero occidentale, di matrice greco-cristiana, quel pensiero che ha cancellato ogni traccia del paganesimo. I tristi tropici sono sempre altrove. La bellezza, questa cosa che ha a che vedere con l’aspetto, questa cosa superficiale (opposta a vita intellettuale e spirituale) che riguarda e storicamente ha sempre riguardato solo le donne. Decorazione di una cultura che resta profondamente maschilista.
Sontag: “For close to two centuries it has become a convention to attribute beauty to only one of the two sexes: the sex which, however Fair, is always Second.”
Maura Gancitano spiega meravigliosamente come la bellezza sia un potentissimo strumento di controllo (“soft” ed insinuante) per creare ed alimentare dipendenza, senso di inferiorità ed immaturità. È un meccanismo perverso di controllo perché viene interiorizzato e la sua vittima sarà il suo stesso carnefice. Gli altri avranno sempre le mani pulite, come peraltro già scriveva Sontag nel 1975. “For the ideal of beauty is administered as a form of self-oppression. Women are taught to see their bodies in parts, and to evaluate each part separately. Breasts, feet, hips, waistline, neck, eyes, nose, complexion, hair, and so on—each in turn is submitted to an anxious, fretful, often despairing scrutiny”.
La bellezza era e resta l’unico o il principale strumento di potere lasciato alle donne; un potere illusorio, inteso sempre allo stesso vecchio modo: come strumento di attrazione dell’altro sesso (quello maschile).
Sontag conclude il suo pezzo, scrivendo: “There should be a way of saving beauty from women—and for them”.
Resta così ancora da scrivere come. Perché, come dice Naomi Wolf in The Beauty Myth (saggio riproposto in una nuova edizione da Tlon): è più difficile disfarsi di un fantasma che della realtà. Me lo chiedo anch’io. Forse si tratta di riscrivere davvero le regole del gioco, di riscrivere tutto daccapo, perché i nostri armadi sono vuoti, non scendere a patti e saper immaginare nuovi mondi in tutti i campi. Forse si tratta finalmente di continuare a raccontare quella scena che ne contiene un’altra, l’abbraccio di un animale sconosciuto in cui però ci riconosciamo, di non soffocarlo, di non nasconderlo tra le pagine, ma di esporlo in tutta la sua vulnerabilità e bellezza. Quella che non si possiede ma si cerca, quella che “ci appartiene” anche quando ci lascia.
Silvia Acierno
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