Si può provare nostalgia per quando si stava peggio?

Per la guerra, la fuga, per le separazioni collettive. Per un muro? Antonio Tabucchi nel suo racconto I morti a tavola narra di una ex spia della Berlino separata dal muro che quando si ritrova a passeggiare per le strade della capitale, ormai unificata, si sente pervadere dalla nostalgia di quel tempo, di quei valori non condivisi ma che davano senso alla sua vita quotidiana. Il suo posto nel mondo.

Forse di questo tipo di nostalgia non è facile parlare perché, anche se si provasse un sentimento di mancanza legato ad un passato negativo nella memoria collettiva, sarebbe difficile ammetterlo. Ma l’ambientazione di una storia in un certo momento storico e in una certa realtà possono suscitare in noi quella nostalgia legittimata da una distanza emotiva e temporale. Dal fatto che non abbiamo vissuto quel dramma in prima persona.

Con i libri è possibile. E allora è possibile che pure la Berlino Est anni ’80, la sua atmosfera underground di spionaggio e separazione, di DDR e vite degli altri, susciti non rimpianto certo, ma una vicinanza affettiva.

Capita con Suite Berlinese di Massimo Miro, edito da Scritturapura.

È l’alba del 10 novembre 1989, la mattina di tutte le mattine per Berlino, e un uomo trova una macchina della Volkspolizei appostata davanti al suo laboratorio fotografico. Gli agenti gli rivolgono sguardi indagatori alla ricerca della verità che presumibilmente vogliono sentirsi solo confermare.

Da un incipit adrenalinico si ripercorrono i mesi precedenti questa scena nella vita di Klaus, dall’apparizione di un misterioso cliente entrato nel suo studio per sviluppare un rullino di foto tutte uguali, a ritroso fino al trasferimento all’Ovest con la madre quando era solo un bambino. E la costante unica della sua sfera sentimentale: l’amore per Gala, l’eterna amica con la quale vivrà la sfida di portare a compimento alcuni esperimenti di Albert Einstein contenuti in lettere datate 1933 che avevano uno scopo preciso: piegare il Tempo.  

Klaus e Gala. Lui, il protagonista; lei l’amore intatto che sin dall’adolescenza aveva avuto il potere di indirizzare i suoi sogni più inconfessabili.

Dieci anni prima insieme ad altri tre amici fanno il gioco dei bigliettini: scrivi qual è il tuo desiderio più grande e poi tra dieci anni ci ritroveremo tutti insieme e li apriremo e vedremo se si è realizzato oppure no.

Bello e rischioso il gioco dei bigliettini.

Un espediente narrativo felice, ripreso anche in altri romanzi, basti pensare a Eshkol Nevo e il suo La simmetria dei desideri, nel quale quattro amici affidano a pezzi di carta la realizzazione dei loro sogni.  Ma qui abbiamo atmosfere diverse, meno soleggiate, e quelli che un tempo furono amici si rincontrano solo per presenziare quell’appuntamento con il destino, preso agli albori dell’età adulta.

Si ritrovano così loro due. Gala è la miccia che innesca l’azione, spingendo Klaus ben oltre la sfera del possibile. Ma Gala è la ragazza da proteggere e salvare da una vita adulta deludente.

“A volte vorrei tornare bambina. Sentire la leggerezza di una vita senza responsabilità…Mi sveglierò con un bacio di mia madre. Mi dirà che la cena è in tavola. Io devo solo sorridere, non essere maleducata, non lasciare niente nel piatto, andare bene a scuola. Nessuno si aspetta altro da me. Solo che io sia me stessa, che io sia felice. Se sono felice io lo sono anche gli altri.”

I due si imbattono in alcune lettere scritte da Einstein, costretto a fuggire dalla Germania nazista rinunciando all’amore della sua vita: Olga, la nonna di Gala.

“Una sera del giugno 1988 Gala mi parlò per la prima volta degli esperimenti. E fu come la resa dei conti.”

Piegare il tempo con una serie di azioni che danno una scrollata a tutte le familiarità del pensiero: otto moduli da attuare in otto giorni nei quali i due si ritrovano a mettere l’orologio indietro di un’ora, poi a programmarlo avanti, dire sempre la verità, mentire sempre, comportarsi esattamente come gli altri si aspettano, comportarsi esclusivamente in base al proprio sentire.

“Essere come gli altri ci vedono è un atteggiamento comodo ma dannoso, come una postura scorretta che a lungo andare provoca la cifosi dell’anima”.

Questo romanzo si affronta con una lettura bulimica.

Se le storie che raccontiamo non dicono nulla di eccezionalmente nuovo rispetto alla cultura millenaria della tradizione occidentale, nella loro variante rispetto al tempo e allo spazio che le ospitano ci arrivano come sempre una narrazione unica. Ogni volta. Al netto dei canovacci immortali.

L’amore intatto che attraversa gli anni e che si manifesta irripetibile come tutte le relazioni non logorate dal tempo si muove qui in una cornice non nostalgica forse, ma capace di suscitare finanche nostalgia per un mondo che non c’è più. Nel quale il passato ingombrante, con cui i tedeschi si ritrovano a fare seriamente i conti, bussa con la sua puntualità disarmante a mezzo dello scienziato più grande del ‘900.

“In quei giorni c’era una tensione palpabile nell’aria, come una lunga vigilia di qualcosa. Il muro aveva i giorni contati e io sentivo che stava per succedere qualcosa. La mia angoscia cresceva. Temevo qualcosa che tutto il mondo occidentale attendeva con trepidazione”.

Angela Vecchione

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