Sappiamo che quel manoscritto è rimasto nella cassapanca per vent’anni. La cassapanca della vita e della memoria, quella che intorno ai quarant’anni Goliarda Sapienza apre, quando lascia il teatro e il cinema e comincia a scrivere (in realtà aveva già scritto documentari con e per Francesco Maselli). Non averla toccata, neanche sfiorata per quarant’anni e poi svuotarla, svuotarsi, lavarla, metterla al sole ad asciugare, riesumare cose, stracciare altre, fermarsi, riprendere, ordinare, disordinare, disseppellire, seppellire. Non una cassapanca qualsiasi ma piuttosto una cassa toracica con un battito in più o uno in meno. Un mare dove l’acqua non è limpida ma sporcata dall’inchiostro di un polipo duro a morire. E accanto la luna, certamente piena, quella delle storie della sorellastra Nica (“lei inventava, io copiavo”): la luna omnivora di cui non bisogna fidarsi perché ti mangia il cuore e la memoria.

Sappiamo che per vent’anni nessuno in Italia ha voluto pubblicare quel manoscritto, che poi dopo la morte di Goliarda, l’hanno pubblicato in Germania e tradotto in Francia, L’art de la joie, dove da subito è stato un successo e Modesta, la sua incredibile eroina, è diventata, oltre ad un indimenticabile personaggio letterario, un modello, una storia di emancipazione: quella che in Italia proprio non volevamo, non eravamo pronti a cavalcare nemmeno vent’anni dopo che era stata scritta. Che il mondo dell’editoria, la macchina dei successi letterari, dei premi, di chi sta dentro e chi sta fuori, “gli inferni e i paradisi dell’editoria”, avrebbe detto Sapienza, in Italia funzionava (e magari funziona) seguendo altre ragioni lo sapeva benissimo anche Goliarda, come lo sapeva Anna Maria Ortese. Questo errore all’inizio della storia di scrittrice di Goliarda è un marchio a fuoco che bisogna sempre ricordare, come fa Toscano nel suo personalissimo taccuino Il calendario non mi segue: “è un’opera troppo oltre come canone, storia, vicende”, ci ripete una e una volta Toscano.

Bisogna sempre partire da qui, da questa mancanza, da quest’atto di cieca superbia, paraocchi e perbenismo. Ma la mancata pubblicazione è anche la cifra dell’opera di Sapienza: doveva andare così, non poteva andare diversamente, perché Goliarda nella vita e Modesta nell’opera, è stata una “eversiva” e quindi una figura al margine. Nel senso di bucare la patina, facendone le spese, di spingersi nella ricerca artistica fino al limite, fino a Rebibbia, per sporcarsi e sporcare la scrittura, quel linguaggio perbene, imborghesito, fragile, così falso, la bella calligrafia. C’è chi sciacqua i panni in Arno, lei a Rebibbia, ha dichiarato in una intervista irriverente (altro che le povere belve della Fagnani) in cui parla della sua bisessualità che è solo una sfumatura in più (già in Lettera aperta scriveva: “è una persona costretta come voi che dice queste cose. Un omosessuale come voi”), della notte di sesso con Milan Kundera, di quanto la Roma bene, intellettuale e cinica fu sconvolta come una verginella dalla sua unione con Angelo Pellegrino, troppo più giovane di lei. Sotto sfratto da una vita, mentre vendeva i suoi quadri e rubava i gioielli ad un’amica ricca, molto ricca, assolta, condannata a due mesi per aver commesso il fatto ma senza dolo, in tribunale come in una pièce di Ionesco. Lì sul punto esatto dove la scrittura e la vita sono quasi la stessa cosa: un atto pericoloso.

La gioia viene da laggiù e la scrittura è quel tentativo sempre rinnovato di raccontare quella gioia senza dolciastro e senza malinconia. La gioia, la pellicina sottile che non bisogna mai lasciarsi sfuggire dalle mani.

Hanno detto tutto o quasi di Goliarda tanto che è difficile cominciarne a scrivere. Eppure, Anna Toscano nel suo taccuino ce la racconta di nuovo, da una prospettiva diversa, non di identificazione ma di distanza e vicinanza, fingendosi Modesta, la sua eroina, la sua creatura più amata. Così ce la racconta dal fondo della cassapanca. È da lì che la osserva attraverso gli anni. Da sotto la bic a punta sottile con cui Sapienza ha riempito fogli su fogli. Da lì la guarda con molto amore. “Io sono la tua mamma e tu sei la mia bambina: poi fra cinquanta, cento anni io diventerò la tua bambina e tu la mia mamma” (Lettera aperta). Dalla pagina ingiallita del manoscritto: posto assolutamente intimo, intimo come un sogno, un incubo, un’allucinazione. Una fantasmagoria da cui nascono mostri e sventure meravigliose come in tutti gli accoppiamenti (Lettera aperta).

Dal manoscritto che fatica a vedere la luce, Toscano la guarda gettarsi nella vita e nella scrittura, che sono sempre “esche lanciate nel futuro”. Goliarda lo fa con uno slancio assolutamente inaspettato ed una originalità letteraria che la riportano in un posto che non è laggiù in via Pistone, nel quartiere Berillo di Catania, dove e quando tutto è accaduto, ma neppure nell’attico romano o a Gaeta, dove Toscano immagina di vederla scrivere. Piuttosto in una dimensione che “viaggia al suo fianco”: su quel gradino nel cortile, quel gradino da cui si entrava nel vano di Anna la sediara da cui ha imparato il mestiere di impagliatrice, sul sapore a ferro del passamano del balcone; sotto il corpo eccitato di Nica; sul grido della madre che arriva da un’epoca anteriore, e resta incastrato qui tra il tavolo e la porta o vola fuori dalla finestra aperta su un’altra primavera. E quello che sembra che potresti afferrare tanto è vicino ma sfugge continuamente alle mani di chi scrive.

Toscano ci riporta nelle giornate di Goliarda, nell’attico di via Denza, la caffettiera di tre tazzine, le sigarette, la custodia di un disco sulle ginocchia, nella poltroncina bassa su cui scriveva, a Gaeta, il suo rifugio, tra le chiacchiere al mercato in via Elena, sulla scogliera. Toscano-Modesta ce la mostra lì, metaforicamente lì, aggrappata al bordo, “a bordo lettino, a bordo letto, a bordo divano, il bordo a cui tenersi dopo ogni elettroshock (a cui si sottopose durante la cura psicoanalitica). Sul ciglio prima di tuffarsi, scendere, discernere. Morire, e rinascere. Ma soprattutto ci porta dentro di lei, dove ci fa sentire lo scricchiolio di quella carta velina “morta, ripiegata nel mio petto, che vibrava come una foglia secca ad ogni sguardo”.

Goliarda rappresenta e amplifica, come poche scrittrici, la radice femminile del suo scrivere. Quella radice che sto chiamando femminile coincide anche con una platea di donne, che stanno lì mentre lei scrive, e allaccia rimorsi, vendette e gioie alle parole, nella sua stanza, sulle sedie, sul divano e guardano mute (Lettera aperta). Le donne che non vivono al piano nobile, ma sono sbattute dalla vita, tradite dalla vita, le care amiche del carcere di Rebibbia. Toscano scegliendosi Modesta si fa parte di quella platea, in uno scambio dei ruoli e dei punti di vista.

Modesta è “un giovane e una ragazza e un virgulto e un uccello e uno squamoso pesce di mare”. Modesta è un Orlando non evanescente come il personaggio metamorfico e tutto metaforico di Virginia Woolf, ma assolutamente terreno, carnale: Modesta cambia senza limiti né prigioni eppure è sempre Modesta. E così anche la Modesta di Toscano è sempre Modesta in una catena infinita, riservata solo alla grande letteratura (editoria a parte).

Silvia Acierno