Nomi e luoghi che si avvicendano, vite che si intrecciano.
Così si presenta A Roma. Da Pasolini a Rosselli, un volumetto pubblicato pochi mesi fa da Giulio Perrone Editore per la collana – a me ormai cara – «Passaggi di dogana».

Giorgio Ghiotti, il giovane e sapiente autore, ha costruito la sua «urbanistica del cuore».

Apparentemente sembra procedere per comparti stagni: ogni capitolo è dedicato a un quartiere della città romana, dal bucolico Monteverde al periferico Trullo.
Tuttavia, in ciascun capitolo c’è un proliferare di luoghi, biografie, azioni e cuori palpitanti.

Quasi ci si perde.

Mentre accenna a un poeta, subito la sua penna è pronta a ricalcare d’inchiostro la vita di un altro.

Ciononostante, i quartieri di Roma e le anime che vi hanno abitato – anche solo per un breve periodo della propria vita – sono accomunati da un filo invisibile e indissolubile, quello stesso filo che aiuta il lettore a non perdersi.

Quel filo è la parola di Giorgio Ghiotti e l’obiettivo che con essa persegue, ossia quello di raccontare cosa è stata Roma negli anni cruciali della poesia italiana: dagli anni Cinquanta ad oggi, senza però offrire al lettore la sensazione di ritrovarsi in un’opera chiusa ed esaustiva.

Ecco, inizialmente il mio approccio a quest’opera è stato ben diverso: pensavo di poter scorgere una lettura critica dei poeti che più mi stanno a cuore e, di conseguenza, trovare un canone, una linearità, una certa contenenza.
Nulla di più sbagliato.
Avviluppata in questa erronea convinzione, mi sono persa in una prima lettura. Cercavo appigli che non riuscivo a scorgere.

Poi ho capito di dover cambiare approccio: non dovevo cercare ciò che io avrei voluto trovare, ma ciò che l’autore ha provato e trovato in questa geografia di affetti, più che di poeti.
E così mi sono ritrovata.
In questo modo, ho ritrovato familiarità con le parole dell’autore e in quei brevi ritratti di poeti ho ritrovato la profondità della loro voce e, ancor di più, il vero leit motiv del libro: Roma, il crocevia dei venti.

Roma non è soltanto lo spazio in cui i poeti si muovono, ma diventa il vero motore delle loro azioni: un vero e proprio deus ex machina.

Roma si fa grembo materno.

Roma accoglie anche – e direi soprattutto – figli non suoi, li sfama, dona loro affetto e protezione, offre loro la sensazione di sentirsi – finalmente – a casa.

Sono talmente pochi i nativi di Roma in questa precarietà di esuli e spatriati, ora come allora – e quelli che immigrarono “in questa città ineguagliabile e mai riconciliata si svegliarono “romanizzati”’, nota Biancamaria Frabotta in Quartetto per masse e voce sola.

L’amore che si deve ad un posto che arrendevolmente ti accoglie, ma battagliero e fiero ti protegge, ti sospinge più in là – in quella terra sconosciuta e avventurosa che è il futuro, e che per Pier Paolo era le notti e i giorni, dalla Stazione Termini alla sua casa, dalle grandi peregrinazioni urbane alla ricerca di un’immagine, di un volto, di un modo della romanità (e della vita) più autentico ed erotico che mai […].

Inizia con Pier Paolo la ballata letteraria per le strade della città eterna, colui che arrivò a Roma nel 1954 con la sua cara mamma Susanna, alla ricerca di sé stesso (forse), alla ricerca di un mondo in cui poter amare e vivere il presente nel modo più autentico e violento possibile. Probabilmente lo trovò, ma quel mondo stava tramontando sotto i suoi stessi occhi.

Non sappiamo quanto Roma gli abbia donato in termini di vita e di libertà, ma sappiamo quanto lui abbia colmato lei.

Dappertutto, da Monteverde al litorale romano, Pasolini rivive attraverso i ricordi di quei pochi che, ancora in vita, lo conobbero; rivive attraverso le targhe affisse ai muri che inchiodano – per sempre – il suo passaggio; rivive attraverso le foto che impreziosiscono le pareti di tutte quelle osterie che hanno offerto un caldo ristoro al Ragazzo di Vita.

E così l’intera città immortala il passaggio di molti, affinché essi possano rivivere ancora e ancora, fino a che l’ultimo superstite del mondo possa godere di quei nomi e di tutto ciò che essi evocano.

Quel ricordo, attraverso gli occhi di Gabriella Sica, è struggente, vibrante:

Provo a immaginare e vedo Dario Bellezza che passa per i vicoli di Trastevere, vedo Amelia Rosselli con la sua risata in un ristorante e Paolo Prestigiacomo che conversa amabilmente di viaggi e di donne, vedo Beppe Salvia che ride con i suoi occhi celesti e Pietro Tripodo che, tenendola per mano, accompagna a danza la piccola Giulia, vedo Giovanna Sicari inquieta e affannata. Quanti poeti abitano Roma nel loro particolare modo, ci sono sempre e camminano nei luoghi in cui li ho visti o abbiamo parlato e scherzato, in piedi o seduti, in una via, in un bar o in una casa. Non ci sono più, ma io li vedo ancora, continuano a varcare il vago confine, dall’Ade alla Terra, ubiqui e presenti, continuiamo a parlare.

E così, sul colle di Monteverde, potremmo percepire l’amara nostalgia di Giorgio Caproni per la sua casa e la sua famiglia, oppure potrebbe capitarci di stupirci difronte ad un’inezia del paesaggio, come accadeva spesso a Gianni Rodari durante le sue lunghe passeggiate diurne.

Passeggiando per Villa Borghese potremmo imbatterci nell’illusione di sentire i profumi provenienti dalla “baracca del poeta” dove Valentino Zeichen cucinava spesso per la moltitudine di amici che lì si riuniva – nonostante le precarie condizioni igieniche in cui verteva.

Tra le stradine del centro potremmo sentire il fragore delle litigate di una bizzarra coppia di amici: Dario Bellezza e Amelia Rosselli, i quali si odiarono a tal punto da amarsi e intrecciare le loro vite in una sorte comune. Amelia morirà l’11 febbraio 1996 e Dario il 31 marzo 1996.

E tanti altri sono i poeti adottati da “mamma Roma” – per riprendere un celebre titolo pasoliniano – tutti legati da un destino comune, anche se inconsapevole: l’aver cambiato per sempre la rotta della letteratura italiana nei suoi anni cruciali.

Poeti, ma prima di tutto Individui, che si ritrovavano insieme a discorrere di avanguardie, riviste e attualità in osterie o luridi sottoscala. Erano vicini, eppure la solitudine e la disillusione erano le uniche cifre identificative di ognuno di loro.

Figli adottivi di una madre – Roma – tanto grande da far sì che chiunque potesse ritrovarsi un attimo prima e perdersi – inevitabilmente e inesorabilmente – un attimo dopo.

Perché a Roma, spiega Bordini, si muore senza accorgersene, e si può sperimentare una solitudine che non ha tuttavia nulla di tragico. È una “melina dolce” che caratterizza il carattere romano, che fa di Roma una città fantasma, sonnambula, immaginaria, e che riesce persino a produrre allucinazioni.

A Roma si può fingere d’essere chiunque, un idiota o un genio, e darla a bere a tutti, persino a noi stessi.

Un passato che si fa presente e che Ghiotti proietta nel futuro, affinché Roma possa continuare ad essere patria e rifugio di chi si sente perso e che, tra i suoi vicoli, può dar nuova voce al proprio Io.

La nuova poesia a Roma ha già trovato alcuni spazi per potersi esprimere in letture pubbliche, festival e rassegne, al netto della mancanza di finanziamenti e del cono d’ombra che il presente sembra riservare a questo genere inattuale e, forse proprio per questa sua natura, contemporaneo più di tanti altri.  

Un volume che si fa mappa e diario, non solo di luoghi, ma di affetti.

Tenete la rotta e… buon viaggio!

Anna Rita Ambrosone

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