Il figlio del celebre scrittore Thomas Mann, Klaus Mann – che forse un po’ tutti ci siamo dimenticati, intellettuale fine e di spiccata forza espressiva del Novecento letterario – scrive a soli ventitré anni la sua versione di Alessandro Magno. Il contesto è quello di una Germania presa dai miraggi della Repubblica di Weimar che non sa ancora cosa fare da grande e, dal punto di vista famigliare, lo slancio di un ragazzo promettente che tenta di svincolarsi dall’ipoteca paterna che comincia a farsi stretta. Spirito inquieto e perturbante, con una vita lambita da cupi bagliori che istigano all’eversione e immersa in una frenetica attività culturale, Klaus come scrittore è stato rivalutato solo negli ultimi decenni da una critica attenta e da un’editoria di recupero. La sua penna particolarissima, che scrive in un tedesco ricercato e sorvegliato ma anche arioso e limpido, è stata oscurata dalla lunga ombra di un padre le cui opere sono oggi tra i classici della letteratura.

Date queste premesse, è singolare il fatto che nel 1929, lo stesso anno in cui il Thomas Mann riceve il Premio Nobel per la letteratura, Klaus pubblichi un romanzo in cui viene narrata la storia di un figlio di un padre famoso e autoritario che va alla ricerca di ‘’una stanza tutta per sé’’. Retrodatando la propria scrittura alla Grecia antica, al passato, mentre il presente gli celebra il padre, Mann figlio si serve delle vicende del principe macedone per dare espressione e colore al proprio sentire. Scelta nella vita la sua strada alternativa, più a briglia sciolta, meno introversa e egocentrica e fatto il proprio outing in un paese in cui vige il Paragrafo 175 contro gli omosessuali, Klaus si sente ora libero, come il suo Alessandro, di guardare alla creazione di un mondo nuovo che nessuno ha mai immaginato prima, un mondo più fraterno, con più ponti gettati tra sponde avverse e meno muri eretti contro gli altri. Si coglie già qui – ma sarà più evidente nella sua autobiografia La svolta – il desiderio fortissimo di chi crede che, almeno una volta nella vita, si possa disporre liberamente del proprio destino, perfino di raddrizzarlo.

Il romanzo viene accolto subito con favore da buona parte della critica. Scrive Jean Cocteau:

«Si può immaginare con quale timore mi sia avvicinato ad un Alessandro… un Alessandro il Grande. Va detto che quell’Alessandro si presentava con coraggio: un tomo corposo in un’epoca, la nostra, di libri brevi. E poi mi arrivava da Klaus Mann, un giovane certamente dotato di grazia, d’intelligenza e della più toccante delle glorie, quella di Thomas Mann suo padre, consapevole che la grandezza non sempre alberga nelle grandi cose. Un ragazzino che si dondola su un cancelletto può commuovere più del corteo di Parsifal.»

Alessandro, come riportato nel titolo, è anche la storia di un’utopia, che reca in sé già il suo fallimento. Un’utopia alla quale non si intende rinunciare per quell’impulso che fa smuovere le cose, che sovverte l’ordine, che rompe i confini assegnati all’uomo dai propri padri, che fa sognare. Certo, il padre Filippo II ha trasformato in pochi anni, con perizia militare e fiuto politico, la Macedonia da terra di pastori nella potenza egemone su tutta la Grecia, al netto delle sue brutalità e eccessi. Tuttavia questo elemento terra diventa sempre più estraneo alla natura lunare del principe. Alessandro possiede una bellezza disarmante e una grazia maldestra che ha poco di virile, ha lo sguardo penetrante ereditato dalla madre Olimpiade, figlia della notte e del mistero, ma non altrettanto nebuloso e beffardo quanto acuto e inquisitore. È un enfant gâté, come Klaus, allevato dal fior fiore degli intellettuali greci, che ben presto rivolge il suo sguardo altrove, a quell’Est, verso la madre Asia che, come le sussurra l’inquietante Olimpiade nei loro convegni notturni, attende il suo re perché possa prosperare e offrirsi a lui, discendente da Achille, spontaneamente.

Il giovane Mann nella sua ricostruzione pone particolare attenzione alle figure maschili che affiancano Alessandro nella missione affidata dalla madre in cui non è estraneo un preciso calcolo politico da parte di quest’ultima. Soprattutto ne mostra l’alterità da persone che, per quanto sapienti di conoscenza e di vita, non bastano al giovane principe o perché non sanno placare la sua voglia di conoscere o perché lo lasciano a bocca asciutta perché non hanno risposte alle sue richieste. E se guardiamo alla sua infanzia non possiamo dimenticare il fallimento di Aristotele che cerca di allevare Alessandro ai misteri del mondo mentre lui ha la testa altrove e pensa a quell’irrequieto Pitagora, il filosofo che aveva cercato la verità attraversando terre e mari fino ad arrivare in India per appagare la sua sete di sapere. E il principe sa che quel viaggio di lì a breve ricomincerà di nuovo e sarà lui a guidarlo.

Anche con i suoi amici di infanzia prova sentimenti ambivalenti. Da un lato c’è Clito che, con i suoi occhi spiritosi che parlano una lingua vivace e di irritante mutevolezza, non prende mai posizione, preferisce una posizione defilata e rifiuta le attenzioni del principe poi re. Tra loro rimarrà sempre un discorso aperto fatto di non detti o di detti male in cui il linguaggio della complicità, della compensazione con un’altra metà del cielo, a volte sferzante e che non ama prendersi troppo sul serio, rimarrà sempre soffocato. Dall’altro c’è Efestione che invece offre premure e presenza, anche se non richiesta, è l’ombra che accompagna Alessandro e lo difende in quella traversata in mezzo a uomini greci, che considerano, sprezzanti, lui e i macedoni dei semibarbari, una ‘marmaglia avida di sensazioni’, e uomini asiatici che tramano nell’ombra. È l’abbraccio protettivo che ti strappa dalle brutture del mondo ma il loro non è un rapporto tra pari, è una coppia di opposti in cui non c’è spazio per la complicità. Clito sorride beffardo, Efestione si dispera, mentre Alessandro si fissa su ciò che non è raggiungibile e trascura ciò che ha a portata di mano. E forse tutti, almeno una volta, ci siamo trovati in questa situazione.

Pure in assenza delle affinità elettive sperate, Alessandro e il suo gruppo di giovani compagni partono alla conquista del mondo. Benché egli progressivamente si tramuti in un monarca, conscio anche della missione che ha in serbo, continua a sentirsi vicino a quei corpi muscolosi – il narrato di Klaus Mann coglie molto bene quel senso di fratellanza che unisce pelle e sudore – che dopo una compagna militare si gettano nudi nelle acque gelide di un fiume e gridano di gioia:

«Quando Alessandro vedeva i loro corpi bruni, non poteva restarsene solo e vestito: gettava via gli abiti, poiché era una di loro, di quei ragazzi che si schizzano e gioivano. Era uno di loro, uno come loro, era bruno come loro, muscoloso come loro, coperto di lunghi capelli come loro. Inebriato da quel senso di comunione dimenticava tutto ciò che da quei ragazzi lo separava, le esperienze, l’ambizione, perfino i dolori. Il suo desiderio di non essere altro che un giovane tra giovani, di avere parte in quel legame che gli sembrava bello e più spontaneo di un legame tra un uomo e una donna, era più forte di tutto il resto. – Così si tuffava in mezzo a loro, nell’acqua»

La personalità di Alessandro ci viene raccontata, a conferma di un animo inquieto, anche nei suoi sogni che egli tiene in grande conto e che teme parecchio. In essi vive esperienze così terrorizzanti da lasciarlo senza fiato. Pensiamo a quando racconta di avere sognato dei bambini che, rimasti a lungo nell’acqua, con le labbra che assumono un commovente colore violaceo, tremano con gli occhi spalancati, mentre lui indossa di fronte a loro uno spesso abito di porpora che lo fa apparire gonfio, gocciolante di sudore, fino a farlo scoppiare. Sembra quasi il confronto tra chi ha niente e chi ha tutto. Chi sono quei bambini? Perché Alessandro implode in sé stesso? Che sia un presagio di ciò che potrebbe accadergli a breve? O forse un’allusione a una sua trasformazione che lo rende diverso dagli altri, bastante a sé stesso, lontano e indifferente a chi ha sempre sentito vicino?

Intanto mentre le spedizione prosegue, con sempre nuove conquiste e mete, Clito diventa lentamente il beniamino dell’esercito mentre Alessandro comincia a mostrare un suo lato inedito, imprevedibile e violento, sedotto dai costumi orientali che progressivamente fa propri – e qui torna l’immagine del sogno. Clito intanto sembra al di sopra delle situazioni, disprezza la realtà perché con essa non vale la pena misurarsi, lascia primeggiare gli altri. È per Mann l’elemento razionale, al pari a suo tempo di Aristotele, che irrora la narrazione e che pungola Alessandro mentre divinizza sé stesso, si rende stravagante e si ubriaca di irrazionalità. L’inizio di questo cambiamento va rintracciato in un’oasi del deserto dove Alessandro fa un incontro che lo segna per sempre.

Investito dall’altro, dopo le sue più intime sconfitte, come con Clito o la regina delle Amazzoni, l’esecuzione dei più fidati in odore di congiura, Alessandro giganteggia sempre più dispotico e implacabile che mai. Tiranneggia chi gli sta intorno, infligge pene più dure di prima, torture orientali, escogitate con estro. Sviluppa sempre più una notte interiore, con il suo vento implacabile e la sua solitudine inquieta, la parte della madre che c’è in lui, che avvolge tutto e tutti in quella nebbia esistenziale che Miguel de Unamuno racconterà magistralmente.

Di fronte a Alessandro si staglia un orizzonte che, per quanto provi ad avvicinare, gli sfugge. Guarda l’immensità della sabbia con la stessa disperata avidità con cui scruta quella delle acque dell’Oceano Indiano. L’anelito all’eternità è costante ma l’eternità si prende gioco di lui spietatamente. Il vento si leva con un forte muggito con poderosi colpi di ala come quello del mare, i suoi uomini non chiedono altro di tornare a casa, la natura si ribella e si protegge da Alessandro chiedendogli sibilando e schernendolo: ‘non sei ancora stanco di scrutare l’immensità?’

Alessandro. Romanzo dell’utopia – pubblicato nella storica traduzione di Gianni Bertocchini in una nuova edizione da Castelvecchi editore – colpisce per la sua aurea avvincente e seduttiva. L’autore ci trasporta non tanto nelle battaglie, su cui le biografie del Macedone spesso si dilungano e alla lunga stancano, ma in un mondo punteggiato da esotismo e mistero, descritto con il fuoco dell’entusiasmo e la perizia che ha dell’incredibile in un ventenne. Al contempo passa al setaccio ogni aspetto esteriore e interiore dei suoi protagonisti, tra le alte e basse maree delle loro personalità senza mai perdere di vista quell’alternanza tra umano e divino, tra ‘palco e realtà’, tra sogno e vita vera, tra l’ansia di vincere e la consapevolezza della propria sconfitta.

Forse per questo Alessandro fino all’ultimo non vuole tornare in patria e costringe i suoi a sempre nuove esplorazioni e conquiste? Forse per questo Alessandro si lascia andare e si fa stregare dal lusso esteriore della Persia e dell’India, trasfigurandosi. Forse per questo Klaus Mann negli anni successivi ricorrerà alla morfina per calmare un animo senza requie e un senso di insoddisfazione che lo porti lontano dall’elemento terra in cui non viene pienamente valorizzato?

Questo romanzo è senza dubbio la porta di accesso verso la personalità complessa di un autore che affida alla scrittura grumi di situazioni critiche con cui dovrà fare i conti, e che vuole fare sentire la sua voce all’interno di quella royal family letteraria da cui proviene. E lo fa con Alessandro, con «l’esigenza quasi criminosa del suo sogno, la dismisura della sua avventura».

Claudio Musso

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