C’è una bambina, in piedi, davanti a un edificio di mattoni con un motivo ornamentale agli angoli e intorno alla porta e alle finestre, un curioso edificio che la bambina chiama “casa”. Si trova un miglio a ovest del centro della cittadina, nel punto in cui le case si diradano, i marciapiedi si interrompono, i lampioni svaniscono. Ancora più a ovest, solo una fattoria in cima a una collina, e tutto intorno campi, altre colline, nude o boscose, e un’ansa del fiume Maitland. Da una parte, la città; dall’altra, l’aperta campagna, un orizzonte vuoto.

La casa, con i suoi cinque acri di terreno e con un fienile, è stata comperata per 2.300 dollari dai genitori di quella bambina, allora sposi novelli, che vi si sono stabiliti nel mese di agosto del 1927. Lei vive lì da sempre, dal giorno in cui è nata, la prima di tre figli, il 10 luglio 1931.

Vi rimarrà sino al ’49.

Se aprissimo lo sguardo, scostandoci un istante da quella bambina – lasciamola là in piedi per un attimo – vedremmo noci piantati da suo padre tra la casa in mattoni e il fienile, una lunga fila di pini come barriera antivento in direzione della cittadina, un orto e prati – l’erba tagliata e poi lasciata seccare perché diventi paglia. Ma soprattutto vedremmo recinti, recinti per le volpi, e baracche col tetto di lamiera. Ovviamente, dentro ai recinti e alle baracche vedremmo le volpi. Perché il padre della bambina fa questo di mestiere: alleva volpi – una media di 200 esemplari circa – per vendere le loro pellicce, e lei, quando non è impegnata a scuola, quando non deve dedicarsi ai compiti, lo aiuta in quell’allevamento – un mondo a parte, dirà più avanti, con i suoi suoni e i suoi odori.

Ci troviamo in Canada, in Ontario, nella contea di Huron, cresciuta come un’eco intorno al grande lago omonimo. O meglio, ci troviamo a Wingham – ora una piccola frazione di North Huron di poco più di 2.000 abitanti – là dove confluiscono due rami del Maitland.

Ma non esattamente a Wingham, come ho detto: più verso i suoi confini, a ovest del centro città, tra il centro con le sue case e chiese, le scuole, i suoi negozi e uffici e la sua biblioteca – quindi strade asfaltate, lampioni e marciapiedi – e l’aperta campagna, quell’orizzonte vuoto.

Tutte le mattine quella bambina cammina fino a Wingham: percorre, che faccia caldo o freddo, che piova o nevichi oppure splenda il sole, il miglio di distanza che la separa dalla scuola, si siede al proprio banco e poi, ore più tardi, ritorna camminando verso casa, verso l’aperta campagna e le colline dell’Ontario, l’ansa del fiume, quell’altra fattoria. Verso l’allevamento, coi suoni e gli odori delle volpi.

Rispetto alla città, la bambina considera sé stessa quasi una straniera, come venisse dai confini del mondo, e così Wingham, tutto sommato piccola e provinciale, niente di così notevole, appare ai suoi occhi molto più bella di quando sia in realtà, molto più misteriosa, più significativa, destinata a lasciare un segno profondo Sarà per lei, per sempre, “like a fire that never goes out”, il luogo dell’origine, dall’imperscrutabile valore simbolico. Sarà la matrice di città immaginarie, città narrative come Jubilee, in cui vivranno molti dei suoi personaggi.

Ma adesso è lì, davanti all’edificio di mattoni.

Ha sette anni, un fratello e una sorella più piccoli. Indossa un vestitino che deve avere visto tempi migliori, un paio di calzette dall’elastico slabbrato e scarpe impolverate. Ci guarda dritto in faccia, in quell’estate canadese, e poi ci dà il permesso, seppure dubbiosa, di scattarle una fotografia.

Si chiama Alice Ann. Alice Ann Laidlaw, dice, ma già lo sapevamo.

“Volete che faccia venire mio papà, oppure mia mamma?”

“No, grazie. Siamo qui per te.”

Lei strizza gli occhi nel sole dell’estate e stira con le mani la gonna stropicciata.

“Ok”, dice, ma si capisce che non capisce esattamente perché mai dovremmo essere venuti lì proprio per lei. Volta lo sguardo verso i recinti delle volpi, si morde le guance, pensierosa.

“È che dovrei andare”, dice.

“Restiamo solo per un po’, tranquilla. Tu fai quello che devi.”

“Ok.”

Il mondo sta per precipitare in un conflitto devastante – siamo nel 1938 – l’Europa sta per andare a fuoco ma lei, Alice, ha ben altro di cui preoccuparsi. Per prima cosa, deve controllare che le volpi abbiano acqua e cibo a sufficienza – suo padre, Robert, che le affidato quel compito, sta ripiantando un paio di paletti per rinforzare uno dei recinti, mentre sua madre, Annie, è dentro l’edificio di mattoni, si occupa dei piccoli e pulisce la casa. E poi c’è un’altra cosa, ancora più importante, a cui deve pensare: sua madre le ha letto da poco una fiaba di Andersen, ci dice, intitolata La sirenetta – un libro preso in prestito nella biblioteca di Wingham – una fiaba col suo terribile finale (“la sirenetta muore, lo sapete?”), e quel finale non le va. La storia, tutta, è troppo triste. Le sembra così ingiusto: tutte quelle fatiche e quelle sofferenze per diventare umana, per amore del principe, per guadagnare due gambe, e poi solo la morte? Davvero non le va. Quello che deve fare, dice, deve assolutamente fare, è cambiare la storia, riscriverla da capo, almeno nella mente, restituendo alla sirenetta la vita che ha perduto. Non è difficile, basta inventare qualcos’altro, e lei n’è capace. Così la sirenetta vivrà con il principe, felice d’ora in poi.

Noi le diciamo: “Sembra una buona idea”.

Alice annuisce: “Sì”, e poi sente suo padre che la chiama.

“Vai pure, noi ti aspettiamo qua.”

La guardiamo correre verso i recinti delle volpi, per dare loro acqua e cibo, e poi tornare indietro e prendere a camminare intorno all’edificio di mattoni, un giro dopo l’altro, pensando a quella fiaba, lo sguardo deciso e le scarpette impolverate. La sta riscrivendo nella mente, lo si capisce al volo. Un quarto d’ora, suppergiù, e poi torna da noi.

“Fatto”, dice, e sembra contenta. “L’ho cambiata.”

“Bene. Bello.” Per il resto del mondo, però, le facciamo timidamente notare, la sirenetta continuerà a soffrire, perché la storia è scritta in questo modo, non ci si può fare nulla.

Alice aggrotta la fronte: non è d’accordo.

“Adesso l’ho cambiata, ho detto.”

“Ah, giusto. Scusa.”

“È molto meglio, ora.”

“Sì, hai ragione.”

Il sole splende sulla città di Wingham, nella contea di Huron, in Ontario, splende sui campi e le colline canadesi, sui recinti delle volpi e sul tetto della casa.  

“Di’ un po’, Alice, immagini perché siamo venuti qui?”

Lei fa spallucce, tira su col naso. È solo una bambina.

“Volete comprare le pellicce? È per questo? Vedere le volpi? Dovete parlare con mio padre.”

Alice Ann Laidlow, che sposerà un ragazzo dal nome di James Munro e manterrà per sempre quel cognome, anche dopo il divorzio, che scriverà racconti imprescindibili – tutti – e verrà definita al pari di Cechov, che vincerà, e meritatamente, il premio Nobel per la letteratura, ora ci indica i recinti. È ancora in piedi davanti all’edificio di mattoni, una bambina scarmigliata che ha appena riscritto una storia che non le andava a genio ed è convinta, non ha alcun dubbio, di avere fatto quel che doveva, quello che era necessario.

“Venite”, dice, “vi porto da papà”.

Prima di incamminarsi verso i recinti delle volpi, coi loro odori e suoni – un mondo dentro il mondo – Alice però sorride per un attimo, un piccolo sorriso inaspettato, luminoso e intelligente, gli occhi puntati dietro le nostre spalle, come se in fondo sapesse molto bene perché siamo venuti, che cosa ci facciamo a Wingham, in quell’estate canadese nell’Ontario, sull’orlo dell’abisso della guerra. Come se in quell’istante avesse visto chiaramente il proprio futuro, tutto di fronte a lei.

“Allora andiamo”, dice poi. “Seguitemi.”

Non è per le volpi, Alice, e neppure per le pellicce o per tuo padre che abbiamo fatto tanta strada. Siamo venuti qui per te. Abbiamo letto i tuoi racconti, quelli che scriverai, li abbiamo letti e riletti. Ma già che ci siamo, sì: andiamo pure a dare un’occhiata. E perché no? Qualunque cosa al mondo, anche un recinto per le volpi – ce l’hai insegnato tu – merita la più grande attenzione.

“Aspettaci”, diciamo.

Dobbiamo attraversare un grande prato, allontanandoci dall’edificio di mattoni. I tetti di Wingham risplendono laggiù, oltre la barriera antivento. Intravediamo Robert, suo padre, accanto a uno dei paletti: scosta il cappello dalla fronte, si asciuga il sudore, alza la mano in segno di saluto.

“Alice, aspettaci!”

Ma lei corre veloce, non si volta neppure.

“Siete un po’ lenti”, dice, ora che l’ha quasi raggiunto.

Alice Ann Laidlow, di appena sette anni, nel suo vestito stropicciato e con in testa la vita felice della sirenetta, è già molto più avanti, come sempre – ed è bello così, è giusto così.  

Elena Varvello