Le Parole di Antonia Pozzi sono specchi che riflettono la realtà, sono versi che racchiudono tutto il mondo che circonda l’io che scrive. La sua è una lirica sensoriale, profondamente radicata nella percezione di un’ambiente in cui scaturisce il bisogno di scrittura. Con le parole, la poetessa dipinge interi paesaggi e descrive scene della propria quotidianità, vissuta tra gli eleganti interni della Milano borghese di inizio Novecento e gli sconfinati spazi delle montagne che svettano su Pasturo.
«Tempia contro tempia / si trasfondono / le nostre febbri. / Fuori, tremoli lunghi di stelle / e l’edera, con le sue palme protese, / a trattenere un luccicore mite. / Nella mia casa che riscalda, / tu mi parli delle grandi cose / che nessun altro sa. / Lontano, / una gran voce d’acqua / scroscia a parole incomprese / e forse a te benedice / dolce sorella, / nel nome del mio amore e della tua tristezza, / a te, / ala bianca / della mia esistenza» (Benedizione).
Scrivere, per questa poetessa, è un gesto preciso e delicato di raccolta di dettagli e di sensazioni: nei suoi versi pone l’attenzione sui piccoli particolari della terra, dell’acqua, del cielo e della propria dimora: elementi quasi impercettibili che diventano essenziali all’interno del raggio d’azione del suo sguardo. Caratterizzate da un’esplicita referenzialità e da un registro confidenziale che in genere sono tipici della prosa epistolare, le poesie di Pozzi raccontano la realtà circostante con un’esattezza quasi scientifica, ma al contempo portano, in ogni loro parola, l’impronta soggettiva della scrittrice, ovvero il segno inconfondibile della forma lirica. «Sulla parete strapiombante, ho scorto / una chiazza rossastra ed ho creduto / che fosse sangue: erano licheni / piatti ed innocui. Ma io ne ho tremato» (Alpe, vv. 1-4).
Ciò che più sorprende della poesia di Pozzi è la sua intonazione mite, la sua voce leggera, che non si impone mai dall’alto, come detentrice di una verità assoluta, ma che invece arriva silenziosa all’orecchio del lettore, confondendosi tra i mormorii dei paesaggi che descrive. Ogni verso dell’autrice suona simile a una confidenza, a un segreto che lei, innocentemente, rivela al tu che le sta accanto. «Vedi: i pioppi, nel viale, si protendono / per abbracciarne il suono. Ogni rintocco / è una carezza fonda, un vellutato / manto di pace, sceso dalla notte / ad avvolger la casa e la mia vita» (Pace, vv. 3-7).
La poetessa è capace di evocare con nitidezza nella mente del lettore il mondo che racconta, un mondo quasi fiabesco, in cui ovunque affiorano rose, pervinche, camelie e altre centinaia di piante; un mondo in cui il cielo si riempie di rondini; in cui il passaggio del tempo è segnato dall’alternarsi di neve, pioggia e luce del Sole; in cui ci si perde camminando tra i boschi e i monti rocciosi. «Ma noi ci porteremo ove l’intrico / dei rami è tanto folto, che la pioggia / non giunge a inumidire il suolo: lieve, / tamburellando sulla volta scura, / essa accompagnerà il nostro cammino» (Fuga, vv. 6-10). I segreti riportati nelle poesie hanno a che fare con la natura che le sta attorno e con cui intreccia un rapporto estatico di sintonia. Leggendo i testi si ha la sensazione che l’io poetico sia una creatura partecipe del paesaggio e che il suo punto di vista sia assimilato all’ambiente in cui vive. Lungo il percorso delle Parole, vengono stimolati tutti e cinque i sensi del lettore, che fa esperienza di diversi colori, profumi, gusti, consistenze e rumori che la poetessa condivide dopo averli percepiti in prima persona. Tramite la poesia riesce a trascrivere le proprie memorie corporee e a trasmetterle agli altri: quasi per magia o per osmosi.
Questa indole di documentare tutte le impressioni fisiche e di tenere traccia dei ricordi del passato porta Pozzi a scoprire anche la passione per la fotografia, arte di cui diviene persino insegnante. Del resto, i suoi componimenti sono vere e proprie immagini, sono la rappresentazione in forma scritta della quotidianità, che viene da lei raccolta in modo sistematico, giorno per giorno, con una voracità a tratti diaristica. «Ricordo che, quand’ero nella casa / della mia mamma, in mezzo alla pianura, / avevo una finestra che guardava / sui prati» (Amore in lontananza, vv. 1-4). Sfogliando Parole, opera omnia postuma, si può notare, grazie alla presenza di precise annotazioni di data (e spesso anche luogo) della stesura di ogni poesia, come la scrittura rappresenti un’urgenza costante, un atto abituale e irrinunciabile di registrazione di dati personali.
Nonostante i componimenti siano rimasti inediti fino a dopo la morte di Pozzi, risulta evidente che proprio le poesie siano state la parte centrale della sua esistenza. Ecco perché è importante partire dalle sue Parole e non dalla sua vita.
Antonia Pozzi è nata il 13 febbraio 1912, figlia dell’avvocato Roberto Pozzi e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, è cresciuta in Lombardia, ha osservato da vicino la tragedia collettiva delle leggi razziali, ha vissuto un amore travagliato con il suo insegnante del liceo Antonio Maria Cervi ed è infine morta suicida all’età di ventisei anni, distesa su un prato innevato della periferia milanese, dopo aver assunto troppi barbiturici. Scrive in una poesia del 17 luglio 1929: «Avrei voluto / scattare, in uno slancio, a quella luce; / e sdraiarmi nel sole, e denudarmi, / perché il morente dio s’abbeverasse / del mio sangue. Poi restare, a notte, / stesa nel prato, con le vene vuote: / le stelle – a lapidare imbestialite / la mia carne disseccata, morta» (Canto selvaggio, vv. 18-25).
Per quanto le vicende biografiche possano risultare rilevanti per la loro tragicità, è solo nella poesia che si ha l’occasione di conoscere davvero Antonia Pozzi. È entrando in quel cosmo parallelo ricco di giardini e montagne che si riescono a scorgere in modo autentico i segni del vissuto di questa poetessa: grazie alle annotazioni che ci indicano dove e quando sono state composte le poesie, alle dediche velate ad A.M.C., e alle apostrofi ad amici e genitori. Ma la traccia più chiara del vissuto risiede nella costante malinconia che è sottesa a tutta la raccolta, in quella melodia nostalgica che accompagna il ritmo dei versi: «Tu non sai come sia triste / tornare per questo sentiero / fangoso / con queste vesti / imbrattate – / nella sera nera / nella nebbia nera – / barcollare tra i rododendri / stillanti» (Mano ignota, vv. 1-9).
Amedeo Bova
(Edizione di riferimento: Antonia Pozzi, Parole. Tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò, Onorina Dino, Àncora, Milano, 2018).
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