Il 30 aprile 2024 moriva Paul Benjamin Auster, e sicuramente in quella data la letteratura contemporanea, statunitense e mondiale, perdeva una delle voci più pure e senza retorica degli ultimi quarant’anni.

Baumgartner è il suo ultimo libro, un addio ai suoi lettori con un romanzo di rara bellezza: le autenticità emotive di un individuo solo. Temi che Paul Auster ha sempre trattato con disinvoltura e garbo, Maestro dell’esistenzialismo, grande scandagliatore delle nevrosi e delle angosce moderne, ma anche narratore di storie nelle quali il caso e il destino si intrecciano ai binari delle vite smascherando la vera sensibilità e natura umana.

Mesi fa leggevo una recensione, di cui ritengo doveroso citare autore e fonte: Paolo Simonetti, in un articolo del Manifesto. Per lui questo romanzo è felicemente inattuale. Mi trova d’accordo, ma non dovrebbe essere inattuale un romanzo così: in Baumgartner la struttura è lineare ma minuziosa, c’è tensione narrativa mescolata sapientemente alla compitezza, una storia aderente, una prosa non sperimentale ma incisiva, corposa e allo stesso tempo fluida; non dovrebbero essere “banditi” dall’editoria questo tipo di romanzi, sugli scaffali il potenziale lettore dovrebbe poter “perdersi” in qualsiasi tipo di libro, ma oggi la scelta è sempre troppo stringente.

Baumgartner è un uomo solo, ha perso la moglie ormai da tanti anni in un incidente, è un professore, scrive saggi, conduce per molto tempo, dopo la grave perdita, una quotidianità fatta di tutti quegli infiniti piccoli gesti che lo legano alla moglie e che, realizzandoli con estrema cura, lo tengono attaccato al ricordo di lei.

“Adesso sono un moncone umano, un mezzo uomo che ha perso la metà di sé stesso che lo rendeva intero, e sì, gli arti mancanti ci sono ancora, e fanno ancor male, così male che a volte gli sembra che il suo corpo stia per prendere fuoco e incenerirsi all’istante.”

Ma Baumgartner tenta di vivere, o di sopravvivere, e con fulgida dignità prova a ricostruirsi una vita, a tracciare un percorso dettato come sempre dal caso. Il lettore si trova davanti un protagonista perfettamente costruito con sentimento di empatia e di solidarietà.

“Baumgartner si emoziona ancora, ama ancora, desidera ancora, vuole ancora vivere, ma nell’intimo è morto. Sono dieci anni che lo sa, e sono dieci anni che fa il possibile per ignorarlo.”

“Vivere è provare dolore, si era detto, e vivere con la paura del dolore significa non volere vivere.”

Baumgartner è un libro che commuove, ma non solo per la spontanea immedesimazione che si ha con il protagonista; è un romanzo che smuove per la delicatezza e la devozione che il personaggio principale rivela difendendo e proteggendo il lavoro di una vita della moglie: scrittrice, poetessa, critica.

La passione che diventa lavoro, il lavoro che diventa propulsore per condurre una vita piena, soddisfatta e condivisa da parte di entrambi.

“Dubbi, sì, momenti di disperazione, sì, ma esiste forse uno scrittore o un artista che non vive in quel terribile instante tra fiducia e disprezzo di sé?”

Con estremo imbarazzo, se dovessi trovare un impercettibile neo in questo romanzo sarebbe nel finale, forse un po’ precipitoso, credo in ragione della crudele malattia di Auster o, come preferisco pensare, perché sarebbe stato troppo difficile anche per lui salutare Baumgartner e la sua vita.

Mi manca, tutto qui. Era l’unica persona la mondo che io abbia mai amato, e ora devo trovare un modo per continuare a vivere senza di lei.”

Caterina Incerti