“Epica” deriva da epos, che è “parola”, promessa solenne, canto.

Mythos, “racconto”, “narrazione”, ha invece un’etimologia oscura: un’ipotesi controversa, ma affascinante, fa derivare il termine da myein, il verbo della sacra iniziazione che significa letteralmente “chiudere la bocca”, in allusione alla segretezza dei misteri che venivano svelati all’adepto.

Il racconto cantato sembrerebbe allora portare con sé anche il sigillo del silenzio.

Infine, il canto è oimē, una “via” tracciata nella memoria, un luogo interiore che l’aedo anima attraverso il recupero di uno degli infiniti percorsi narrativi del patrimonio epico.

Aedi e rapsodi si facevano interpreti di quella tradizione poetica che aveva nell’oralità la sua cifra distintiva.

Per l’aedo era dunque particolarmente prezioso il valore della memoria, sostenuto in ciò dall’ispirazione della Musa. Mentre il rapsodo è abile perché da Omero, come da un dio, è posseduto. Quella che nell’epos era la divina ispirazione, il soffio sapiente delle Muse in grado di animare la voce dell’aedo, diventerà con Platone una “divina possessione”: il poeta non sa nulla di ciò che canta perché è “fuori di senno”, abitato dal volere e dalla voce del dio.

Alla fase di memorizzazione di un patrimonio epico condiviso doveva dunque seguire, da parte del cantore più dotato, un libero assemblaggio e un’originale cucitura dei modelli raccolti. I poemi sono frutto di una sapiente tessitura di materiale preesistente e dettagli nuovi, unificati nella narrazione rapsodica. Anche per Pindaro il rapsodo (rhapsōidós) è “colui che cuce insieme i canti” (da rhaptein, “cucire” e aoidē, “canto”), e gli Omeridi sono i “cantori delle parole cucite” (Nemea 2.1-3). Il poeta-aedo è un abile artigiano che, al pari di altri maestri delle arti, crea e modella a partire dagli elementi di cui dispone. Egli pratica non la semplice memorizzazione, ma la rimemorazione, che implica una possibilità di variazione del corpo narrativo principale, una combinazione sempre nuova del materiale che struttura la composizione a tutti i livelli narrativi.

Mi chiederete, a questo punto, secondo la dottrina Giallini, “eh ‘sticazzi?” cioè “e chi se ne fotte’?” di questa elucubrazione filologica.

Avete ragione: questo è semplicemente un tentativo aulico per spiegare l’assoluta indissolubiltà tra la musica e l’arte della narrazione che si fa canto della memoria e della mente e poi materia contaminata di umano nella scrittura.

E se mi viene chiesto di associare una playlist di dieci libri fondamentali e dieci album di riferimento e di metterli in relazione tra loro mi trovo disperso nel deserto siderale a naufragare in un dolce mare di indecisioni e ripensamenti. Come posso definire, stilare, ricordare con percezione certa cosa ascoltavo mentre scrivevo e leggevo o cosa scrivevo mentre ascoltavo e leggevo? Rimarrebbe una infinita sequela di ripensamenti, cancellature, correzioni, integrazioni, rimpianti.

Bisogna semplificare, mi sono detto. Se cerco di ricordare, contestualizzare, erigere paradigmi piacioni non ne esco vivo.

Ho deciso di usare un criterio romantico-utilitaristico-alchemico-casuale. Cercare a random nella libreria, accontentarsi di ciò che l’occhio carpisce associandolo ad una musica di fondo che aveva senso per quel libro.

Per dirla sempre alla Giallini: me cojoni!

1- Inferno – Dante Alighieri/ In Utero – Nirvana.

ll canto di dolore di Kurt. Il viaggio nella disperazione solipsistica nel mezzo del cammin di sua vita. E poi quel video di Anton Corbijn cos’altro non è se una discesa agli inferi definitiva e senza uno straccio di Virgilio a guidarci a riveder le stelle?

2- Il Mondo nuovo/Ritorno al Mondo nuovo – Aldous Huxley/ Un Mondo Nuovo – Disciplinatha.

La visione distopica del futuro di Huxley redatta all’inizio degli anni Trenta, in piena deflagrazione dei Totalitarismi del Secolo Breve si diluisce nella forma canzone post industrial noise dei provocatori emiliani allievi di Mishima e Ferretti. Edulcorati dalle Debordanti – nel senso di Guy Debord – velleità situazioniste degli esordi, i Disciplinatha piazzano un album per il Consorzio di Ferretti/Zamboni/Maroccolo che sberleffa in maniera sublime il benpensare della sinistra antifascista, citando il 18 aprile di Scelba con le mondine in rivolta, il Battiato patriota ed i Carabinieri democratici onesti ed irreprensibili. Questo non è un libro! Questa non è una esercitazione!

3 – Orlando – Virginia Woolf/ Silence is Sexy – Einsteurzende Neubaten.

Orlando attraversa lieve i secoli trasformandosi da giovanotto seducente in aggraziatissima dama. La Woolf che finge di essere Ariosto affresca una versione moderna di Tiresia che ci vede benissimo, definisce che la sessualità è stato della mente e non gerarchia sociale e patriarcale. Cosa c’è di più sexy che rinvenire questa verità nel silenzio di Blixa Bargeld che accende una sigaretta soffiando nel microfono il fumo dell’anima? 

4 – Fahrenheit 451 – Ray Bradbury/ Fahrenheit 451 – Francois Truffaut – Original Soundtrack Motion by Bernard Herrmann.

Bradbury, Truffaut, Herrmann. Credo possa bastare.

5 – Il più grande uomo scimmia del Pleistocene – Roy Lewis/ Ill Communication – Beastie Boys.

“Il Libro che avete tra le mani è uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni” ha scritto Terry Pratchett nella prefazione all’edizione del 1988 del formidabile pastiche di Lewis datato 1960. Brian Aldiss lo inserì tra i libri di fantascienza che inauguravano la collana tematica della Penguin. Ma solo perché non aveva idea su quale scaffale inserirlo. Sfuggente, indefinibile, indecifrabile in un genere. Era pura fantascienza intergalattica. In più imbevuto di un’ironia struggente e anarchica. Quella stessa ironia geniale, intergalattica, trasversale, indecifrabile in uno stereotipo di genere che definiva i tre ragazzotti bianchi, piccolo borghesi ed ebrei infatuati di punk hardcore ed hip hop che  vendettero l’anima alla Def Jam e si misero nelle mani di quel genio di Rick Rubin.

Quindi se voi credete che i Beastie Boys siano stati solo un gruppo rap non capite nulla di musica. E, perdonatemi, neppure di letteratura.

O my God, it’s a mirage/ I’m trying to tell you now, it’s sabotage
listen all y’all, it’s a sabotage
listen all y’all, it’s a sabotage
listen all y’all, it’s a sabotage…

6 – David Bowie. The Illustrated Biography – Gareth Tomas/ Space Oddity – David Bowie.

Ground Control to Major Tom…

7 – Leggermente Fuori Fuoco – Robert Capa/ Unknown Pleasures – Joy Division.

“Visto che scrivere la verità è ovviamente tanto difficile, nell’interesse della verità stessa mi sono permesso ogni tanto di andare appena oltre, altre volte di fermarmi appena al di qua. Tutti gli avvenimenti e le persone descritte in questo libro sono accidentali e hanno qualcosa a che fare con la verità”. Scriveva il grande fotografo di origine ungherese sulla sovracopertina del suo libro di foto e memorie uscito nella primavera del 1947. Immagini, sfocate che cercano una verità nell’immensità dell’universo. Non vi fa venire in mente una copertina della Factory Records, realizzata da Peter Saville per un oscuro gruppo postpunk di Manchester, che raffigurava una serie di pulsazioni elettromagnetiche prodotte da una Pulsar, la CP1919? Sapete cosa fece Saville per renderla efficace? Invertì i colori, dal nero sul bianco al bianco sul nero.

Il gruppo si chiamava Joy Division. L’album era Unknown Pleasures. E conteneva, tra le meravigliose pietre miliari del dark isolazionista e claustrofobico partorite dalla mente sfocata di Ian Curtis e Peter Hook, Shadowplay – il gioco delle ombre – che più o meno recitava cosi:

Ho trovato la verità
nel gioco delle ombre
recitando
la tua stessa morte…

un poco quello che Capa affermava nel suo celebre aforisma: “ se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino”.

Ovvero

sei leggermente fuori fuoco…ma se vuoi salvare almeno la Verità devi rimanere…leggermente fuori fuoco.

8 – Sorvegliare e Punire – Michel Foucault; la Società dello spettacolo – Guy Debord/ The Shape of Punk to Come – Refused; Pura Lana Vergine – Fluxus

Il trapasso del Secolo Breve, i totalitarismi che edificano la propria tracotanza sulle teorie del controllo sociale teorizzate da Foucault a partire da quando l’Ancien Regime stabilì che la diversità – culturale, sociale, politica, sessuale, mentale – è un crimine.  E poi Il Novecento che implode nel sangue raggrumato di limoni, materia cerebrale rappresa e lacrimogeni urticanti sull’asfalto di Genova 2001 sotto l’occhio vigile delle telecamere onniscienti. L’undicisettembre  inteso come la sublimazione assoluta della spettacolarizzazione della cronaca che si fa storia e controllo delle menti e dei popoli.

Ed in sottofondo, nella cuffia destra, uno sguaiato spilungone svedese, nato nella glaciale cittadina di Umea, 650 km a nord di Stoccolma, urla, in un microfono incandescente di frequenze medie radiofoniche assediate da onde sismiche post hardcore, che siamo pronti per un nuovo rumore e blatera di un Programma del Partito del Rifiuto forgiando il disco più rivoluzionario, contaminato, bastardo e concettuale di tutta la scena punk contemporanea. Nell’altra cuffietta, in piena sintesi stereo-rumorista, il salmodiare violento e dolce di Franz Goria leader dei torinesi Fluxus che su una granitica struttura Metalcore recita fascinazioni utopiche e condivisibili fino al midollo citando Pasolini, Salinger, Koprotkin e, appunto, Guy Debord. L’informazione. L’alienazione. L’incapacità di essere. Di riconoscere se stessi. Di riconoscere gli altri. L’illusione del potere.

9 – Marcovaldo– Italo Calvino / 77 – Talking Heads.

Frenetico, quasi nervoso, ed incredibilmente accattivante. L’estro di David Byrne e compagni è sin dalle prime battute (dai primi giri di chitarra) evidente. La musicalità, i motivetti frenetici, i testi difficilmente comprensibili renderanno le “teste parlanti” un gruppo unico nel suo genere, simile solo ai primi “Devo”. I quattro si compiacciono di essere ironici (e auto-ironici) e non a caso già poco dopo i Talking Heads saranno consideranti tra i gruppi “intellettuali” del movimento new wave. I brani, anche quando si ascoltano con superficialità, fanno battere il piede per portare il tempo e il disco risulta ancora oggi accattivante, a suo modo originale e divertente. Circa vent’anni prima, catturato dal mondo popolare fiabesco e immaginifico, Calvino si era dedicato alla scrittura di una fiaba tutta contemporanea: la storia di Marcovaldo e della sua famiglia. Le venti novelle che compongono l’opera si presentano difatti come delle vere e proprie favole con uno stile ed un tono che richiamano le tanto amate narrazioni orali tradizionali. Le avventure di Marcovaldo sono ambientate in una grande città imprecisata, (probabilmente il riferimento è a Torino) vivace, attiva, veloce. Questa Torino non nominata diventa lo specchio di una quotidianità mediocre che confusa con l’invenzione creativa di Calvino è il prototipo della città moderna.

Ecco a me piace immaginare che le storie surreali, ironiche e dolcissime di Marcovaldo siano musicate da un David Byrne in pieno periodo punk. Per vedere l’effetto che fa….

10 – Gli occhiali d’Oro – Giorgio Bassani/ Murder Ballads – Nick Cave; Slowdive – S/T.

In una Ferrara ricca, affascinante ma oppressa dal fascismo, un giovane studente ebreo – verosimilmente lo stesso Bassani, voce narrante del romanzo e stessa voce del più famoso Giardino dei Finzi-Contini – incrocia il suo destino con quello di Athos Fadigati, un maturo medico di chiara fama. L’amicizia che nasce fra i due farà scoprire al narratore che dietro tutta la cultura e la raffinatezza del dottor Fadigati si cela un abisso di solitudine dovuto alla sua presunta omosessualità. Un peccato che l’Italia di allora non contemplava fra quelli che potevano essere redenti. E gli occhiali d’oro dello stimato professionista diventano il simbolo di una diversità sempre meno tollerata, così come l’appartenenza all’ebraismo del narratore, una diversità che non potrà che andare incontro a una catarsi tragica. “Gli occhiali d’oro” di Giorgio Bassani è un romanzo breve o racconto lungo che fa parte del “Romanzo di Ferrara” ovvero di quell’opera didascalico-storica attraverso la quale lo scrittore ferrarese volle rendere materia viva la sua città. Ovvero un essere mutante al tempo ma immoto nel suo becero e spietato provincialismo che erompe nel dramma storico e pubblico de Il Giardino dei Finzi-Contini o de La Notte del 1943 e che si immerge nel torbido dolore privato di questo racconto lungo o romanzo breve, intriso di una sensibilità sconvolgente per l’epoca in cui fu scritto riguardo il tema della doppia discriminazione: razziale-religiosa e sessuale. L’assunto di Bassani è semplice: non sono i singoli uomini e donne ferraresi a determinare il male, ma è la stessa città di Ferrara ad esserne l’occulta esecutrice. Cosa di più sinistramente attinente alla terrificante storia narrata dal buon Nicola Caverna nel suo The Curse of Millhaven estratto da quel capolavoro di estetica gotica che fu Ballate Omicide? Ma anche la struggente Sugar for the pill degli shoegaze heroes contemporanei Slowdive ci invita lievemente a decorare con una corona di rose nere alla memoria di Pixies, My Bloody Valentine, Black Heart Procession e Jesus and Mary Chain la lapide della letteratura in forma di musica.

Domenico Mungo

Domenico Mungo è docente di Lettere, Storia e Geografia; scrittore, saggista,
giornalista, poeta ed editore.
Si è occupato di musica, letteratura e cinema contemporaneo per il mensile Rumore dal 2002 al 2016.At tualmente collabora come corrispondente dall’Italia con il mensile di cultura e critica sportiva austriaco Ballesterer Fußballmagazin di Vienna.
Organizza, conduce e dirige eventi culturali, performance e rassegne musicali e divulgative. Il suo ultimo libro è With Love. Epifanie di Kurt Cobain e di me nella Torino Musicale e Sociale degli anni Novanta. Romanzo Punk (Miraggi Edizioni, Torino 2020).